il tempo dei migranti

Stefano Rota

Il fenomeno migratorio è uno degli elementi che connotano in modo più forte e chiaro la nostra contemporaneità. Considerando gli ultimi venticinque anni di storia, corrispondenti alla "età delle migrazioni" in Italia, è possibile vedere l'intreccio indissolubile tra modelli migratori e storia sociale, politica, economica e culturale dell'Italia. Le tre interviste descrivono i tre modelli migratori che si sono succeduti dalla fine degli anni Ottanta a oggi, parlandoci di un tempo, quello dei migranti, che, in realtà, ci unisce in un'unica narrazione.

 

 

Introduzione

Il tempo, si sa, assume un senso compiuto e vivo solo se lo si relaziona all’accadere di eventi, sia che si presentino in forma cronologicamente sequenziale, sia che ci raccontino un agire simultaneo di soggetti differenti all’interno delle formazioni sociali storicamente determinate. Parlare, nel 2015, di fenomeni sociali, politici e culturali di fine anni Ottanta sembra di descrivere un mondo di cui abbiamo solo un pallido ricordo. In realtà, sono passati solo 25 anni, un battito di ciglia rispetto al tempo della Storia, che lo si voglia vedere “omogeneo e vuoto”, o, al contrario, che se ne evidenzi la sua disomogeneità, frammentazione e pienezza [i], cogliendone anche quegli aspetti di “simultaneità” temporale di cui parla Anderson [ii]. Ma un quarto di secolo rappresenta, nella sua pienezza e disomogeneità, un arco di tempo sufficientemente lungo per definire cambiamenti importanti nella “guerra di posizione” che connota il conflitto culturale in una determinata struttura sociale. Basti pensare a cosa era l’Italia all’inizio del venticinquennio precedente, quello che si è chiuso alla fine degli anni Ottanta. Il movimento del ’68, l’autunno caldo, il movimento femminista e quello del ’77, gli “anni di piombo” hanno ridefinito la trama di alleanze, l’”articolazione” dei soggetti e delle identità, hanno modificato rapporti di forze tra e all’interno di ideologie che sembravano destinati a perdurare in eterno, imponendo mutamenti in tutte le componenti che costituiscono la struttura sociale, con effetti più o meno duraturi.

Se analizziamo il venticinquennio che va dalla fine degli anni Ottanta a oggi, per contro, possiamo certamente individuare nei movimenti migratori il fenomeno sociale che più altri ha indotto altrettanti posizionamenti, contrapposizioni, elaborazione e rivisitazione di impianti ideologici, definizione di nuove soggettività, all’interno di una “pratica discorsiva” che ha nell’identità – o nella ricerca e rivendicazione di un’identità - uno dei suoi punti centrali.

E’ anche il fenomeno che, per riprendere il titolo di questo lavoro, ha un rapporto più intenso con e scandito da il tempo: il tempo di permanenza in Italia, il tempo trascorso nel paese d’origine, il  tempo di attesa per un permesso, per apprendere la lingua, il tempo trascorso prima del ricongiungimento familiare. Il soggetto migrante ha del tempo e della sua scansione una visione e una misura altra rispetto a quella dei cittadini autoctoni, sia per la peculiarità degli eventi che marcano i punti di svolta del suo trascorrere, sia per il diverso rapporto che il tempo stesso ha con i ritmi della vita quotidiana in altri contesti culturali e strutture economico-sociali, che vengono riprodotti nei nuovi ambiti di riferimento, come ben descrive Ejaz nella prima intervista. Si può, credo, affermare che la rappresentazione della temporalità è, quindi, uno dei tratti distintivi della soggettività migrante.

Le tre interviste presentate descrivono questi ultimi 25 anni, un periodo che possiamo chiamare, usando il titolo del famoso volume di Castles e Miller, “l’età delle migrazioni”[iii] in Italia. Uso volutamente il termine “descrivono”, ben sapendo quanti e quali sono stati gli eventi che verranno ricordati nei libri di storia per questo periodo. Le stragi di mafia, il ventennio berlusconiano, le metamorfosi di quello che fu il Partito Comunista Italiano, la partecipazione a guerre più o meno dichiarate, Mani Pulite e il suo seguito, la nascita della cosiddetta “seconda Repubblica”, la attuale crisi economico-finanziaria, solo per citarne alcuni.

Ciononostante, le tre interviste, dicevo, descrivono questo periodo non tanto quanto, o di più o di meno di quegli eventi, ma lo descrivono a fianco degli (o in contrapposizione agli) stessi: costituiscono un percorso narrativo che, partendo da un punto di vista totalmente altro, parlano di quegli stessi cambiamenti sociali, politici, economici e culturali; “connotano” (nel senso che Hall[iv] dà a questo termine dentro le pratiche discorsive, cioè di descrizione dei significati “associativi”) la nostra storia di questo quarto di secolo, facendo sì che difficilmente riusciremmo ad immaginarci in una situazione diversa da quella che costituisce la nostra contemporaneità.  

Quello che Mellino, nella presentazione del libro di S. Hall del 2006[v] e citando Bhabha, chiama il “terzo spazio” è l’ambito di riferimento al cui interno si dispiega la soggettività migrante che agisce, o, come preferisce dire E. Isin[vi], “attua”, in spazi che travalicano i confini nazionali, descrivendo striature e contiguità tra aree geograficamente lontane. Questo agire e queste aree definiscono lo spazio eterogeneo determinato dall’irruzione delle “periferie” al centro della “ex metropoli colonialista”, lo modificano, ne marcano nuovi confini e, allo stesso tempo, li mettono in discussione. Tale soggettività migrante crea delle fratture e contraddizioni all’interno del processo di inclusione che un’ampia parte della letteratura sull’argomento tende a descrivere invece come lineare. Al contrario, l’imprevedibilità, il non assoggettamento dell’agency e del soggetto che la produce definiscono momenti di ingresso e fuoriuscita temporanei da tale processo, ridiscutendone la validità assoluta e marcandone il suo carattere irreversibilmente “differenziale”, come la definiscono Mezzadra e Neilson.

E’ molto forte l’assonanza tra “terzo spazio” e la definizione che D. Chakrabarty [vii], citando a sua volta H. White e F. Schiller, richiama per definire il modo in cui i subaltern studies lavorano per una differente narrazione storica. Partendo dalla considerazione che la storia in sé non ha un significato e ordine predeterminato – un’infinità priva di senso, per dirla con le parole di Weber - e che “fornirle un significato è una responsabilità umana”, Chakrabarty riprende il tema “dell’addomesticazione politica dei fatti storici”, individuando uno spazio che sfugge a questa logica, alla dicotomica distinzione soggetto-oggetto. In questo spazio, i fatti storici, le storie individuali e collettive restano in una sorta di limbo “dell’incomprensibilità”, del sublime (nel senso di impossibilità all’addomesticazione, all’assoggettamento): la loro narrazione è la “voce media”, quella che parla della “natura sublime del processo storico”, come processi con un “innato disordine”.

 

L’idea che stava alla base della raccolta di queste tre interviste era, e rimane, quella di vedere ciascuna di esse collegata a uno dei tre periodi che, mi sembra, compongano la ancora giovane età delle migrazioni in Italia. Per provare a dare un senso compiuto alle interviste stesse, propongo una breve e certamente molto superficiale ricostruzione del fenomeno, descrivendo, appunto, le tre fasi individuate.

 

La prima prende avvio con i grandi cambiamenti nelle politiche migratorie nei paesi che storicamente avevano rappresentato la meta privilegiata dei flussi verso l’Europa, favorendo lo spostamento delle rotte di questi verso i paesi dell’area del Mediterraneo, Italia e Spagna in primo luogo. E’ un processo che inizia verso la metà degli anni Settanta, ma che assume dimensioni abbastanza significative solo nel decennio successivo, con l’arrivo, prima, di cittadini dalla costa sud del Mediterraneo e da alcuni paesi asiatici (soprattutto Filippine e Sri Lanka) e, successivamente (già verso la fine degli anni Ottanta), da alcuni paesi dell’Africa sub sahariana, Cina e subcontinente indiano (India, Pakistan e Bangladesh). In quel periodo, i flussi migratori rappresentavano un fenomeno socio-politico e culturale di importanza relativa e non percepita come problematica, sia per la loro ancora scarsa consistenza e visibilità, sia per la fase alta di congiuntura economica che nei migranti trovava una nuova e importante linfa, soprattutto in alcune aree del paese – la famosa e ormai arrugginita locomotiva del Nord Est, la rampante Milano e il suo hinterland iperindustrializzato, i distretti industriali della “terza Italia” e, più genericamente, la diffusione di pratiche produttive in contesti molto più estesi delle mura di cinta delle fabbriche, con la conseguente crescita di ambiti di lavoro a bassa specializzazione ed elevato contenuto umano – sia, infine, per essere l’Italia di trent’anni fa ancora ai margini del processo di globalizzazione e finanziarizzazione dell’economia che, proprio in quegli anni, stava ridefinendo pesantemente strategie socioeconomiche e politiche, equilibri e priorità a livello mondiale. I cittadini stranieri che arrivano in Italia incontrano un paese non abituato a confrontarsi con il fenomeno migratorio, ma, nelle situazioni più critiche, trovano il sostegno di pezzi della società civile: le associazioni del terzo settore, le strutture di ispirazione religiosa e, soprattutto, i movimenti degli studenti (la fine degli anni ’80 è caratterizzata dal movimento della Pantera), che dimostrano di capire, con un decennio di anticipo rispetto ad altri, che quello che si presenta è tutt’altro che un fenomeno marginale, ma, semmai, la conseguenza più evidente di quale fosse la direzione che il modello produttivo globale stava assumendo.

 

Il secondo periodo, che prende avvio alla metà degli anni Novanta, può essere identificato con la fase di consolidamento dell’Italia come meta dei flussi migratori già attivi, l’esplosione dei paesi dell’est europeo come nuova e sempre più importante area di provenienza e, allo stesso tempo, l’estensione di questa a paesi dell’America Latina e ad altri paesi africani. Non a caso, la legge quadro sull’immigrazione, conosciuta come Turco-Napolitano, è del 1998: rappresenta il primo tentativo legislativo di “sistematizzazione” del fenomeno migratorio (la precedente legge Martelli non può essere definita tale), di vincolare e regolare lo stesso sulla base di presunte esigenze di manodopera e di accordi con paesi di provenienza. Sono gli anni in cui si consolida la “specializzazione etnica” di alcuni ambiti produttivi, la femminilizzazione di una parte consistente dei flussi. A livello socio-culturale e politico, si diffondono e assumono un forte significato termini appartenenti a un “discorso razziale” che trova diritto di cittadinanza in ambito legislativo, amministrativo, lavorativo, scolastico, comunicativo. Sono anche gli anni in cui diviene pratica più o meno regolata e legale la cooperazione infrastrutturale tra attori che agiscono a livello internazionale – nei paesi di partenza, in quelli di transito e in quelli di destinazione – per fare delle migrazioni un fenomeno il più possibile vincolato e organizzato sul modello del “just in time”. Ma, contemporaneamente, è in questo periodo che perdono significato le distinzioni sopra riportate – paesi di transito e paesi di destinazione. I flussi migratori divengono sempre più imprevedibili, sia per le loro direttive, sia per il progetto che vi sta alla base. Una prima migrazione viene sempre più spesso seguita da una seconda, anche a distanza di molti anni (il primo paese passa dallo status di destinazione a quello di transito?), prendono corpo e sistematicamente falliscono politiche di “rientro volontario”, viene problematizzato e messo definitivamente in discussione il legame tra migrazione e “sottosviluppo” e tra migrazione e opportunità di sviluppo nei paesi di provenienza, basati su una lettura semplicistica e deterministica di cause ed effetti.

 

La terza fase è quella attuale e mi sembra opportuno farne coincidere l’avvio con le grandi trasformazioni che dal Maghreb si sono diffuse al Medio Oriente, quindi con la fine del decennio scorso e l’inizio di quello in corso. E’ inutile ricordare che il 2010 sia stato anche l’anno in cui la crisi economico-finanziaria ha cominciato a far sentire pesantemente i suoi effetti, in termini di forte contrazione dei posti di lavoro e riduzione della domanda, andando a incidere pesantemente sui settori più deboli e meno protetti della composizione della forza lavoro, con conseguenze dirette su tutta l’articolazione delle forme sociali e comunitarie delle loro vite. Questi due elementi insieme spingono verso un cambiamento sostanziale del “motivo” ufficiale che viene registrato come causa della migrazione, oltre a ridurre quantitativamente la consistenza complessiva dei flussi in entrata. I cosiddetti “migranti economici” – do per scontata la mia adesione alla lettura che Sandro Mezzadra ha fatto su queste pagine proprio sull’inconsistenza e inadeguatezza del lessico sulle migrazioni, su cui si fondano le politiche nazionali ed europee e il cui obiettivo è, di fatto, quello di negare la responsabilità storica dell’Europa nel sorgere ed esplodere di vari tipi di crisi nel sud del pianeta – calano drasticamente. Aumentano in modo molto consistente, invece, le migrazioni provenienti da aree del pianeta affette da crisi “riconosciute” (le virgolette servono a sottolineare il fatto che molte altre crisi, ugualmente importanti, non vengono considerate tali, come si è voluto argomentare ancora su queste pagine). La figura centrale di questo nuovo corso dei movimenti migratori, il profugo, fa saltare i meccanismi consolidati in Europa di definizione delle modalità di accettazione basati sul modello del “migrante economico”, mettendo a nudo la totale indisponibilità da parte di quei paesi a fare i conti con la propria storia, più o meno recente, di rapporti con i paesi del sud del pianeta. Le periferie in fiamme (ma anche rese aride, espropriate, impoverite) della ex metropoli colonialista riversano ai suoi confini una moltitudine di cittadini non disposti a tornare indietro, come dicono i migranti accampati a Calais, ribadendo nei fatti e quotidianamente uno slogan che campeggiava sui muri di Brixton a Londra, durante i riots degli anni Ottanta: “we are here, because you were there”.

 

L’intervista come strumento narrativo presenta punti di forza e punti di debolezza, soprattutto, per quanto concerne i secondi, se viene svolta utilizzando una lingua terza (in questo caso l’inglese), come è accaduto per il secondo e terzo racconto (Jakie e Juvi sono di madre lingua tagalog, i tre nigeriani hanno come lingua materna idiomi locali). Da un lato, l’intervista facilita l’emergere nel modo meno mediato possibile la voce degli stessi, dando a loro un ruolo, più che di “soggetti parlati”, di veri coautori, come ha magistralmente insegnato Romano Alquati, nelle sue indagini nelle fabbriche torinesi negli anni Sessanta[viii]. Sul versante opposto, va ricordato come la traduzione intervenga in modo, spesso, irruento nelle trame relazionali e comunicative (come hanno ben descritto Balibar, Mezzadra, Sakai e altri studiosi[ix]), a maggior ragione se questa agisce in modo duplice: dalla linguamadre dell’intervistato all’inglese e da questo alla linguamadre di chi raccoglie l’intervista. Oltre a ciò, va ricordata l’importanza determinante delle pratiche di codificazione e decodificazione[x] del significato nei processi comunicativi: la non scontata aderenza e sovrapposizione tra i due elementi, essendo entrambi fortemente condizionati da fattori ideologici e culturali, crea distanze tra il vissuto identitario, la sua codificazione che si traduce nel racconto, la raccolta dello stesso attraverso il processo di decodificazione che, a sua volta, ne consente la riproduzione. Questa si trasforma in una nuova codificazione, a cui corrisponderà una successiva decodificazione da parte dei destinatari ultimi.

Nonostante la consapevolezza del peso di questo fastidioso e irrisolvibile rompicapo, ripresento qui – con alcune piccole modifiche -  le tre interviste che sono già state pubblicate su "Lavoro Culturale".

 


[i] Così lo descrivono Mezzadra e Neilson in Mezzadra, S., & Neilson, B. Confini e frontiere. Il Mulino, Bologna, 2014.

[ii] B. Anderson, Comunità Immaginate, Manifestolibri, Roma, 1996

[iii] Castles, S., & Miller, M. L'età della migrazione. Odoya. Bologna 2012

[iv] G. Leghissa (a cura di) Hall S., Politiche del quotidiano, Il Saggiatore, Milano 2006

[v] Hall S. Il soggetto e la Differenza, Introduzione di M. Mellino, Meltemi, Roma, 2006

[vi] Isin, E. Citizenship in flux: the figure of the activist citizen. Subjectivity issue 29, 2009 , pp. 367-388.

[vii] Chakrabarty, D. La storia subalterna come pensiero politico. Studi culturali, 2004 , pp. 233-251.

[viii] Alquati, R. Per fare conricerca. Velleità alternative, Torino, 1993

[ix] Sakai, N., & Mezzadra, S. (a cura di). Translation - Issue 4 Politics , 2014, pp. 9-29.

[x] G. Leghissa (a cura di) Hall S., 2006 (op. cit.). Codificazione/Decodificazione, pp. 43-56.

“Vedevo tutto bianco”: conversazione con Ahmad Ejaz

Marzo 2015

 

 

1989. La presenza di cittadini migranti in Italia è ancora molto contenuta. Il primo anno per il quale esistono statistiche, il 1992, conteggiava  un decimo dei cittadini non di origine italiana oggi regolarmente presenti (circa 600.000). Essendo quegli gli anni in cui i flussi migratori assumono una consistenza fino a quel momento sconosciuta, si può ragionevolmente supporre che, tre anni prima, il numero complessivo dovesse essere parecchio inferiore e, comunque, quasi per la totalità concentrato nelle regioni produttive del Nord. La ridotta presenza di persone provenienti da paesi del sud del pianeta, unita alla totale assenza dei mezzi di comunicazione maggiormente utilizzati oggi, fanno si che, in larghissima parte, chi arrivava in Italia in quegli anni si trovasse di fronte una realtà totalmente sconosciuta. Per contro, chi arriva oggi, o comunque nel corso del nuovo secolo, ha ricevuto immagini, descrizioni, filmati, racconti di chi è già qui o di chi è rientrato, temporaneamente o no, al proprio paese. Capita spesso, parlando con migranti arrivati in tempi recenti, di sentirsi dire “quando sono arrivato, avevo l’impressione di esserci già stato qui”.

Ejaz è un cittadino italiano di origine pakistana. Arriva in Italia nella seconda metà dell’89, insieme ad altre centinaia di cittadini provenienti dal subcontinente indiano, che costituiscono, di fatto, il primo nucleo della adesso molto folta comunità che unisce i cittadini di India, Bangladesh e Pakistan a Roma [i]. Giornalista, mediatore culturale, ha fondato l’associazione “Nuove Diversità” e il giornale “Azad”, di cui è direttore. In questa conversazione, racconta, a tratti con toni anche molto ironici, le sue impressioni, la sua lettura, o difficoltà di lettura, del mondo che si trova davanti nei primi mesi di permanenza a Roma.

Il 1990 ha segnato uno dei “turning point” nella storia dei movimenti migratori verso l’Italia: la Legge Martelli consentiva, infatti, la regolarizzazione della presenza, unicamente sulla base di una certificazione attestante la presenza in Italia prima del 31 dicembre 1989.

Su questo punto, la produzione delle certificazioni, si è costruito un rapporto importante, fondamentale per la storia dei movimenti migratori in tutti gli anni Novanta e oltre: quello tra i migranti e il movimento degli studenti della Pantera. Un rapporto che si è ulteriormente consolidato con l’occupazione della Pantanella, sempre nel 1990, “il primo centro di accoglienza creato dalla società civile romana”, come lo definisce lo stesso Ejaz. Ma è stato anche un laboratorio politico e sociale importante, dove per la prima volta veniva alla luce il carattere centrale della soggettività migrante rispetto alla forma globale che gli eventi internazionali di quell’anno davano a intendere avrebbe preso il modello produttivo dominante.

Ejaz assiste a tutto questo da una posizione, per certi aspetti, privilegiata: arriva con un visto da giornalista (“era di dieci giorni e sono qui da 25 anni”), con un background culturale elevato, con alle spalle una storia di studente di sinistra, “quando essere di sinistra era illegale”, oppositore al regime militare che si era instaurato in Pakistan.

Questo non impedisce che saltino con forza ai suoi occhi tutte quelle caratteristiche del nostro vivere quotidiano a lui completamente estranee. Viene così alla superficie una diversità di fondo su aspetti a cui nessuno verrebbe da pensare, tanto sono parte dell’universo culturale di riferimento di ognuno di noi, che li si veda da una parte, o dall’altra.

 

Il passo di donna

Prova a raccontarmi le tue impressioni, quelle che ti si sono maggiormente impresse nella memoria, dei tuoi primi mesi in Italia.

Ejaz: Stavo sempre a Termini e vedevo questa folla di persone, romani, turisti, le ragazze vestite in questo modo, con le minigonne, vedere le gambe delle donne, la faccia, era per me era tutto strano. Su gli autobus erano tutti bianchi. Io vedevo tutto bianco. Vedevo questa popolazione che correva, per andare a lavorare e per tornare, con un modo di camminare che era diverso. Non vedevo quella gerarchia a cui ero abituato in Pakistan; era tutto nuovo, mischiato. Le donne che camminavano come gli uomini, non come le donne che avevo visto camminare con il passo da donna, che fumavano.

Com’è il passo da donna?

Ejaz: Le donne camminano in Pakistan come donne, gli uomini hanno una loro camminata, le donne anche e sono due camminate diverse. Qui no, tutti camminano allo stesso modo, perché devono correre. Anche le parolacce qui sono uguali, mentre da noi esistono le parolacce degli uomini e quelle delle donne. Tutto il linguaggio in generale è separato in Pakistan, qui è mischiato. La cosa che mi ha colpito è che Valentina e i suoi amici si baciavano sulla guancia: in Pakistan, se baci una donna su una guancia, è un atto osceno e la galera è da sei mesi a due anni. Qui, quando ti parla una donna, ti guarda; in Pakistan, no, non ti guarda quando ti parla, così come fanno anche i bambini con i grandi. Ti insegnano a scuola che non devi guardare il tuo interlocutore. Per gli occidentali è obbligatorio guardare l’altro negli occhi. Quando ho cominciato a lavorare come mediatore, i bambini pakistani si lamentavano che la maestra gli diceva: guardami quando ti parlo, mentre noi diciamo al bambino: non mi guardare quando io parlo. Anche la gestualità, la distanza che si tiene quando di parla è tutto diverso.

 

 

Cibo per animali e abbronzatura

Immagino che ci fossero aspetti che delle vita che ti ruotava intorno che trovavi buffi, ridicoli nella loro incomprensibilità. A me, ad esempio, è successo di notarne quando arrivai in Mozambico. Cose che dopo un po’ non ci fai più caso.

Ejaz: Certo che ce ne sono! Quando ho cominciato a lavorare in un magazzino Bologna, la cosa più strana per me era vedere una corsia intera di cibo per gli animali. Venivo da un paese dove il cibo era importantissimo e tutto quel cibo era solo per cani e gatti. E io dovevo lavorare lì! Quando lo raccontavo ai miei amici, non ci credevano.

Un giorno ho conosciuto una persona che ha speso quattro milioni di lire per il funerale del gatto. Quando ne ho parlato sul mio giornale, l’ho spiegato dicendo che qui non fanno figli e che quindi nasce un rapporto con l’animale molto diverso, lo portano dal dottore, sono preoccupati per la loro salute, lo lavano con lo shampoo, gli danno cibi prelibati. Per me tutto questo era incomprensibile.

L’altra cosa che mi ha colpito molto degli italiani è che quando è arrivato luglio, nei fine settimana la città era vuota. Ma dove sono andati tutti? Peggio ad agosto! Allora sono andato con un mio amico con il quale vendevamo braccialetti, collane indiane, a Ostia. Stavano tutti lì! Ho chiesto al mio amico: cosa fanno qui? Mi ha risposto: stanno seduti davanti al sole, tutto il giorno, guardano il sole. Io non ci credevo; pensavo: staranno qui un’ora e poi se ne vanno. Invece no: due, tre, quattro ore, andavano a pranzare e tornavano. Non riuscivo a capire come potesse essere possibile. Noi, se possiamo, scappiamo dal sole, odiamo stare al sole. Per noi, una bella giornata è quando piove. Ci sono molte canzoni legate alla pioggia dei monsoni, la pioggia è un dono di dio. Gli italiani, all’inizio, quando mi dicevano: che bella giornata! Io guardavo fuori e c’era il sole. Ancora adesso un mio amico mi chiama da Lahore e mi dice: oggi è una bella giornata, sta piovendo. I poeti parlano della pioggerella nelle loro poesie romantiche, nei film di Bolliwood, fanno la pioggia finta nelle scene più toccanti.

 

 

 

“Io” e “gruppo”

R. Col passare del tempo, conoscendo le persone, hai notato altri aspetti della vita in Italia che ti risultavano in qualche modo estranei?

Ejaz:  Sì, c’erano cose che vedevo e rifiutavo, come ad esempio il concetto di anziano che esiste qui. L’abbandono degli anziani, all’interno di un sistema familiare, fatto comunque di poche persone, tre quattro persone al massimo. Da noi, ci sono sempre nipoti, vicini di casa, le case stesse sono fatte in modo diverso, sono sempre aperte agli ospiti. La nostra identità culturale è basata sul gruppo, a differenza di un’identità culturale basata sull’individuo in Europa, che rende difficile la gestione dei rapporti. Da dove vengo, “io” era poco rilevante. Qui, “io” è “me”. Io, che ho una data di nascita. Per noi la data di nascita non è obbligatoria.

R. Cosa c’è sul documento d’identità?

Ejaz:  Abbiamo il nome e il nome del padre; noi non abbiamo il cognome. Lo inventiamo per prendere il permesso di soggiorno. Dal nome del padre e dal nome nostro, peschiamo un nome e lo mettiamo come cognome. Anch’io ho messo Ahmad come nome ed Ejaz come cognome, perché non potevo dare il nome di mio padre, è troppo lungo. Il nostro cognome, di indiani, bangladesi, pakistani, è un’invenzione, che abbiamo tirato fuori da quello che c’è scritto sul passaporto. Uguale per la data di nascita: per noi non è importante. All’inizio avevamo 00/00 e l’anno sul passaporto, ma il computer italiano non lo accettava, quindi le ambasciate dicevano di mettere 1° gennaio, per non far perdere tempo all’impiegato. Adesso ci sono decine di migliaia di persone nate il 1° gennaio. La data di nascita non è importante, perché non è importante l’individuo. Pensa a un Pakistano, bangladese che lavora 10 ore al giorno, non vive per sé: alla fine del mese, manda tutti i soldi a casa della famiglia. Questi soldi, 500-600 euro, la madre li riceve e li divide tra altre dieci persone, che sono figli, cugini, le donne di casa. Noi siamo contenti così.

Un’altra responsabilità nostra è che dobbiamo fare sposare le sorelle, le figlie. Questo comporta una spesa di 10-20.000 euro. Lo stesso vale per mandare un figlio in occidente: è un percorso che, passando dall’Iran, la Turchia, può durare da sei mesi a due anni, con un costo di 10-15.000 euro. Quindi la famiglia deve vendere il negozio, la casa, si riempie di debiti, ma è una responsabilità collettiva.

 

Tempi di vita e tè freddo

R. Una cosa che mi aveva colpito molto in Mozambico è una totale differenza del concetto di tempo. Le persone aspettavano un pullman anche un giorno intero, andavano in un ufficio e dormivano, perché sapevano che la loro attesa poteva essere molto lunga. Hai notato anche tu questa differenza?

Ejaz:  Parlare con te di queste cose è facile, perché sai esattamente cosa significano. Quello che dici è anche il mio vissuto, ma quello che mi ha colpito qui è il concetto di tempo libero. In occidente è molto sentito: le ore di lavoro, le attività extra-lavorative, le ferie. Per noi è tutto diverso: i negozi stanno aperti girono e notte. Anche qui, un commerciante, se ha avuto il permesso per stare aperto dalle otto di mattina a mezzanotte, sta sempre aperto in quell’orario. Quando sono arrivato, vedevo che tutti i commercianti chiudevano a pranzo e riaprivano alle quattro di pomeriggio. Un concetto di tempo libero che non capivo.

Noi abbiamo un grande rapporto con il tè, da noi non esiste il caffè. Il chai col latte è molto importante quando arrivano gli ospiti. Deve essere bollente, perché chiacchieri e bevi, piano piano. E’ importante che sia bollente perché devi avere il tempo di bere il tè e chiacchierare con gli altri. Il vostro caffè al bar è ordinato, preparato e bevuto in un minuto e mezzo, addirittura in piedi, per fare prima. Per noi, invece, ha un significato completamente differente. Questo è legato al nostro concetto di tempo: un film dura tre ore, un matrimonio sette giorni, l’autobus parte solo quando è pieno. Se poi è Ramadan, all’ora della preghiera, non parte perché prima c’è la preghiera.

Un giorno, era estate, un mio amico mi ha detto: vuoi un tè? Io gli detto sì. Mi porta questo bicchiere, che io ho bevuto, e mi sono detto: adesso, dopo questa bevanda fredda, arriverà il tè. Il mio amico mi ha detto: quello è il tè, il tè freddo. Io sono rimasto un po’ incredulo, perché per me il tè è solo caldo, bollente.

Direi che la differenza principale tra i nostri concetti di tempo è tra un’idea del tempo verticale, il vostro, proiettato nel futuro, e un’idea circolare, la nostra, che dà importanza al presente.

 

Traduzione e identità

R. Arriviamo al presente. Parlami del giornale Azad e della sua funzione

Ejaz:  Azad è un giornale online, anche se per molti anni è stato stampato, e raggiunge migliaia di pakistani in Italia. Parla molto di integrazione, integrazione reciproca. E’ anche letto in Pakistan da chi è interessato all’emigrazione in Italia. Parla di problemi legati all’immigrazione: permesso di soggiorno, cittadinanza, patente italiana. Contiene le guide, tradotte in Urdu, su come inserire un bambino in una scuola, cos’è il numero blu, il numero verde, quali sono i diritti della donna in Italia (molti uomini mi dicono di non scrivere sui diritti delle donne, perché se lo leggono le loro mogli si creano problemi).

R. Vorrei affrontare un tema più specifico: la traduzione. Cosa significa tradurre una procedura, delle norme dall’italiano all’urdu? Quando traduci, cosa traduci e come traduci?

Ejaz:  Guarda, se io traduco letteralmente, non ha nessun significato. Se io voglio tradurre matrimonio, che in urdu è shadi, non è sufficiente. Per noi shadi è il matrimonio combinato e significa solo questo. Lo stesso vale per la parola libertà. Nella nostra cultura, molte volte il termine libertà è interpretato come volgarità. La libertà della donna, spesso assume il significato di volgarità del comportamento femminile.

Quindi, tradurre non è facile. Per tradurre una guida medica di ginecologia, è molto difficile. Da noi non si può parlare della sessualità. Come ti dicevo prima, esistono linguaggi separati tra uomini e donne. Mantenendo il rispetto per la religione e per la cultura pakistana, bisogna tradurre in modo che un lettore legga quello che traduco. Io ho di fronte tre linguaggi in urdu: quello degli uomini, quello delle donne e quello della famiglia. Io devo usare il linguaggio che tenga conto di queste differenze, che non offenda nessuno.

Il giornale Azad usa un linguaggio mischiato, è un urdu italianizzato. Il lettore è una persona che ha una doppia cultura: quella d’origine e quella italiana.

Il migrante è sempre una persona in viaggio. Nei racconti dei migranti sono sempre presenti i tre elementi centrali: il paese d’origine, il viaggio e il paese di destinazione. Il tema del viaggio c’è sempre nei discorsi dei cittadini di origine diversa.

Questa sensazione di doppia appartenenza si manifesta sempre, anche nei sogni. Io spesso ho sognato di vedere dalla finestra le signore che vedo nel palazzo di fronte, ma vedere anche in strada scorrere un matrimonio pakistano, con i tamburi, i canti.

Il problema della doppia identità si trasforma, col passare degli anni, in una doppia estraneità: cominci a diventare straniero anche al tuo paese e continui a esserlo dove vivi.

L’essere straniero assume il valore di una terza identità. Possiamo dire che il giornale ha anche una funzione di dare un senso a questa terza identità: l’accettare di non poter picchiare la moglie o il proprio figlio, pur dentro al rispetto delle tradizioni pakistane generali, significa dare corpo a questa terza identità.

Dopo il 7 gennaio [assalto alla sede di Charlie Hebdo] hanno espulso due ragazzi pakistani, tutti e due di seconda generazione. Erano attratti da quest’idea dello stato islamico, perché non si sentivano appartenenti a niente e a nessuno, come accade a molte seconde generazioni.

 

Termina così questa conversazione con Ejaz. Con un’affermazione tanto forte quanto riconoscibile, percepibile nelle rivolte delle metropoli europee, da Parigi a Londra, ma anche nella scelta da parte di molti giovani di sostenere o di aderire allo Stato Islamico. La terza identità di cui parla è quella che si crea a cavallo tra le due estraneità, ma è anche la stessa che, tra due “identità”, produce una cittadinanza che Isin ha definito “enacting citizenship”. E’ un tipo di cittadinanza che si dispiega in molti contesti, dal giornale Azad, alla scuola “Pisacane” di Tor Pignattara a Roma, dove, secondo le parole di Cecilia Bartoli dell’Associazione Asinitas, prende corpo una vera “cittadinanza scolastica”.

Credo, senza voler aggiungere altro per non voler interpretare o “tradurre” quanto è già stato ben espresso, che questi punti meritino un’approfondita riflessione. Ognuno faccia la sua.

 

 



[i] I cittadini Srilankesi hanno una storia differente, come si è detto precedentemente, avendo avuto nel lavoro domestico un canale specifico di ingresso in Italia.

Nel ventre del drago – conversazione con Jackie e Juvi

Giugno 2015


 

Quella che segue, più che un intervista, si potrebbe descrivere come la scrittura a tre mani - una di Jackie, una di Juvi e, in misura minore, una mia - di un breve resoconto sul modo in cui le migrazioni dalle Filippine si dispiegano e vivono nell’attraversamento di confini e lungo rotte più o meno consolidate, ribadendo quel grado di incertezza, di non assoggettamento, di imprevedibilità, che caratterizza da sempre, ma con una crescita direttamente proporzionale a quella della globalizzazione, le migrazioni.

Due elementi importanti risaltano all’interno della conversazione. Il primo è costituito dall’apparato infrastrutturale che, con gradi diversi di “legalità”, governa le migrazioni, come è stato ben descritto da Xiang e Lindquist in un articolo su [i]. Il ferreo e dispotico regime che regola la vita di fabbrica e la sua appendice del dormitorio è il secondo aspetto che viene messo in evidenza. Si tratta di un argomento su cui è stato già scritto molto, con riferimento tanto alla Cina continentale quanto a Taiwan, da molti studiosi, tra i quali Pun Ngai e il suo collettivo di ricerca, Jenny Chang, Albert Tzeng e gli italiani, Devi Sacchetto, Ferruccio Gambino e Paolo Do[ii].

 

Jackie e Juvi sono due nomi propri, corrispondenti ad altrettante persone fisiche, ma, nel contesto più ampio in cui vorrei provare a inserire la loro esperienza (senza volerne minimamente togliere significato e valore, in termini di specificità, forza e anche dolore), possono benissimo trasformarsi in nomi comuni, assumere il tono di “voce media”, come la chiama Chakrabarty. Ciò è dovuto alla diffusione delle pratiche narrate dalle due amiche all’interno della moltitudine di giovani filippini/e, ma non solo, che si muovono verso Taiwan, Singapore e altre mete del sud est asiatico, dove operano le maggiori companies elettroniche a livello mondiale. Un altro aspetto accomuna le storie qui riportate a quelle di altre centinaia di migliaia di cittadini: la prima migrazione diviene funzionale a una seconda (terza, nel caso di Juvi) migrazione verso un paese occidentale, europeo, americano o dell’Oceania che sia. Come è già stato argomentato su queste pagine, i progetti migratori vivono della continua tensione che si crea tra soggettività, propensioni dei migranti e i sommovimenti che agitano la composizione e ricomposizione globale dei processi produttivi e le logiche di governance che la presiedono. In questo contesto, parlare di return o circular migration perde qualunque significato, proprio a causa di quell’incertezza di cui si è detto prima. Accompagnare il termine “migrazione” con un numero ordinale consente di mantenere aperta questa prospettiva in chiave epistemologica.

 

Ho conosciuto Jackie e Juvi in un corso di italiano organizzato in collaborazione tra l’Associazione Adra e Transglobal. Sono due persone molto diverse tra loro, sia per il livello d’istruzione raggiunto nelle Filippine, sia per temperamento e determinazione. Entrambe, adesso, lavorano presso una famiglia romana in qualità di domestica e baby sitter, un tipo di occupazione per la quale i filippini sono molto richiesti, al punto da aver fatto della loro comunità la seconda per numero di residenti a Roma, dopo quella rumena, e la sesta a livello nazionale.

La conversazione si è svolta in inglese. Ciò significa che il racconto, nel passaggio dal loro vissuto alle pagine di Frontiere News, ha subìto due traduzioni. Non si tratta di un elemento di poco conto, visto il carattere sempre ambiguo e “violento” che ricopre la traduzione in sé, come ha argomentato recentemente Étienne Balibar in un articolo per il blog di Transglobal su Frontiere News.

Me ne scuso, in primo luogo, proprio con Jackie e Juvi.

 

Da Manila a Taipei

Juvi: Quando ho deciso di partire ero ancora minorenne, quindi non potevo. Mia sorella era  a Taiwan e vedevo tutte le cose che poteva comprare, i soldi che mandava a casa e volevo fare la stessa cosa.

Ma io volevo partire subito, quindi ho pensato che l’unico modo era quello di comprare un nuovo nome. Nessuno voleva prestarmi il suo, quindi una persona mi ha aiutato a cambiare la data di nascita. Ho fatto un nuovo certificato di nascita con un anno in più. Ho fatto domanda in molte agenzie di recruitment specializzate per lavoratori che vogliono andare a Taiwan. Ma funzionano anche per altri paesi, soprattutto i paesi del golfo.

Mi hanno convocata: ho dovuto fare un’intervista ed esercizi fisici, per mostrare che ero in grado di sopportare la fatica. Poi ho dovuto fare un controllo medico: se hai il verme solitario non ti prendono, perché i cinesi dicono che se ce l’hai, sei pigra e non lavori. Ho dovuto pagare (nove anni fa) 100 euro per il cambio del certificato di nascita, 25 euro per le visite mediche e 2.500 euro per l’agenzia. L’ultimo passaggio è l’ottenimento di un documento che è siglato tra i due paesi per consentirti di lasciare le Filippine.

Jackie: Dopo, ti fanno fare un corso di orientamento che ti prepara alla vita in Taiwan, ti insegnano le cose principali per chiedere informazioni in cinese e altre cose basiche, che riguardano la vita di tutti i giorni. Il giorno della partenza, ci si incontra in un gruppo all’aeroporto (sono tutti lavoratori che hanno fatto lo stesso percorso). In tutto, ci vogliono oltre due mesi per svolgere il processo.

Jackie: Appena arrivi a Taiwan, ti portano subito all’ospedale, dove ti fanno un check up completo, perché hanno paura che le persone paghino nelle Filippine per passare il test medico. Dopo di che, ti informano qual è il tuo posto di lavoro, ti dicono il nome dell’azienda e ti trasportano al dormitorio. Per arrivare a questo punto, abbiamo speso in tutto 3.500 euro a testa.

Appena arrivati, ci hanno preso i documenti, che restano con l’agenzia. A quel punto, siamo solo dei lavoratori, non siamo più persone con un documento.

Il pagamento avviene tramite l’agenzia di recruitment: ricevono i soldi dall’azienda, che trattiene però una parte, (circa 100 euro al mese) e che ti danno solo a fine contratto. Questo prelievo forzato ha il senso di legare la persona al lavoro e all’azienda, ma anche quello di farti sentire un investitore nell’azienda stessa e, ovviamente, di farti sentire che ti sta aiutando, perché sta risparmiando soldi per te. Sono tre elementi importanti nella nostra cultura, che tutti riconoscono e accettano. Ci fanno sentire una risorsa per il loro capitale. I nostri soldi ci vengono dati alla fine del contratto, senza nessun interesse, anche dopo tre anni, dentro al’aeroporto, non prima. Questo per essere sicuri che non ci si fermi lì oltre la scadenza del contratto. Te li danno cash e tutti sanno, quando arrivi a Manila, che chi arriva da Taiwan ha una grossa somma cash con sé; è molto pericoloso.

 

 

I confini della fabbrica

Juvi: il primo giorno di lavoro, ti cambiano il nome, ti danno un nome cinese (sono ancora capace di scriverlo); è il nome che ti identifica all’interno dell’azienda e nella tua vita a Taiwan, non essendo in possesso dei nostri documenti, ma unicamente della tessera dell’azienda.

Il giorno dell’arrivo, dopo l’ospedale, ci hanno portati al dormitorio. E’ una struttura grande, di proprietà dell’azienda, con stanze dove dormono minimo quattro persone. Nel dormitorio, non puoi cucinare: l’azienda ti dà la prima colazione e altre poche cose, soprattutto latte, che noi non bevevamo, perché era troppo. Nel dormitorio sono alloggiati i lavoratori provenienti anche da altri paesi: Vietnam, Indonesia, Thailandia. Ci dividono per nazionalità. Ci sono regole precise nei dormitori, che devono essere rispettate. E’ l’agenzia di recruitment che manda delle persone a controllare di notte. L’agenzia è responsabile del nostro comportamento durante il soggiorno a Taiwan. Se fai qualcosa che non va bene, ti danno un warning sheet. Hai ha disposizione tre warning sheets: alla terza, sei licenziato, ti vengono a prendere al dormitorio, ti portano all’aeroporto in un’ora. Non so se ti ridanno i soldi che hanno trattenuto mensilmente, nel caso in cui sei licenziato.

Jackie: L’azienda impiega lavoratori locali e migranti. La maggior parte è costituita da questi ultimi, perché i locali lavorano solo nel turno diurno, mentre i migranti sono concentrati negli altri due turni.

Juvi: Alcune aziende, come Asus, dove ho lavorato nella mia prima migrazione a Taiwan, sono localizzate in campagna. Lì è molto difficile vivere, perché sei sempre attaccata all’azienda. La mia vita era solo lavorare, dormire e mangiare. C’era un mercato notturno, ma dovevi andarci in gruppo, perché era pericoloso. Nel secondo lavoro, alla Lindsen, dove abbiamo lavorato insieme io e Jackie, era diverso: dentro a una città, con la possibilità di uscire, andare al cinema, a mangiare fuori. Abbiamo fatto anche alcune amicizie con delle ragazze cinesi.

Jackie: I cinesi non ci discriminavano sul lavoro, anche il caposquadra, fuori dal lavoro, era molto amichevole con noi. Ma questo era nove anni fa, adesso mi hanno detto che è differente.

Juvi: a Taiwan, potevi lavorare solo tre anni, poi te ne dovevi andare e non potevi più tornare. Se volevi tornarci, dovevi cambiarti il nome o prendere in prestito il nome di un’altra persona che non intende andarci. Io l’ho fatto, ho cambiato il nome per tornarci la seconda volta. Ho dovuto pagare di nuovo la persona che mi aveva cambiato la data di nascita. Questo era la situazione prima: adesso puoi lavorarci fino a nove anni, ma sempre per periodi di tre anni ciascuno. Il processo però non è cambiato: ogni volta devi pagare l’agenzia, fare le visite mediche e pagarle. In più, le condizioni sono peggiorate: non hai più il cibo gratis, te lo trattengono dal salario, e altri benefits. In compenso, il salario è un po’ più alto.

Juvi: Lavorare in Asus e lavorare in Lindsen è molto diverso. In Asus è molto più dura. Ci sono molti reparti: io lavoravo in quello delle schede madri. Lavoravo a una macchina, un lavoro durissimo, perché devi stare sempre in piedi, controllando ogni pezzo che la macchina inserisce nella scheda madre. Dovevo controllare che la scheda madre fosse a posto. Se una scheda passa e non va bene e arriva così al cliente, il manager si arrabbia tantissimo. Io ho passato 3.000 schede madri a HP e alcune non andavano bene. Il “line leader” mi ha detto: “se il manager si arrabbia, non dire niente, stai zitta”. Il manager è venuto e mi ha detto, urlando: “se capita di nuovo, devi pagare. Ti faccio vendere la tua casa nelle Filippine”. La pressione è altissima, perché il reparto dove lavoravo è il primo passaggio per fare un pc.

In Lindsen non è così: stai seduta con gli occhi incollati al microscopio usi le dita per produrre i microchips. Se fai un errore, ricevi un primo avviso. Al terzo, sei fuori. La differenza in Lindsen è che lavoravamo sedici ore, e poi altre sedici ore, che tu voglia o no. Non in tutti i reparti si lavora sedici ore.

Jackie: Sì, io lavoravo solo otto ore, perché ero al controllo finale dei prodotti e il mio compito era di valutare in quale reparto avevano fatto un errore e fare rapporto al mio capo. Da lì, il pc passa al QC (quality control) e quindi al cliente. Il QC occupa solo cinesi. Se qualcosa non va bene, la colpa ricade sul mio reparto.

La cosa più brutta che mi è capitata è stata quando un’altra lavoratrice aveva già due avvisi, quindi un terzo avrebbe significato il suo licenziamento. Loro tendevano a metterci uno contro l’altro, ci obbligavano a essere molto duri se qualcuno faceva un errore. Questa persona ha fatto un terzo errore. Io mi sono presa la colpa per non farla licenziare (era una donna anche lei filippina). L’agenzia di recruitment avrebbe saputo che io ho fatto un errore. E’ l’agenzia la principale responsabile per i lavoratori: c’è un legame molto stretto tra agenzia e azienda: questa fa totale affidamento sulla prima per il comportamento dei lavoratori.

 

Verso l’Occidente

Jackie: Io sono arrivata in Italia nel 2006: mi ha invitato una nostra amica. Mi ha detto “perché invece di fare richiesta per andare negli USA non vieni qui?” Per venire in Italia non ci sono le agenzie di recruitment come mediatori. Mi ha aiutato una persona, credo che fosse del Perù. Lui ha fatto avere il mio visto alla sorella della mia amica. Gli ho dovuto dare 5.000 euro. Questa persona ha un ufficio in Sud America e l’ho contattato via mail. Tutto si è svolto in questo modo, non l’ho mai visto. Queste persone hanno amici negli uffici dell’immigrazione, dove ottengono un visto per l’area Schengen con poche decine di euro.

Il percorso per arrivare in Italia è stato molto lungo. Sono arrivata a Hong Kong, dove dovevo aspettare altre indicazioni su come procedere. Da lì, mi hanno fatto arrivare in Marocco, sempre come turista. A Casablanca è arrivata una persona che doveva dare il visto per Schengen. Dal Marocco, però, mi hanno detto che dovevo andare in Egitto, dove finalmente mi hanno dato il visto da mettere sul passaporto. Dall’Egitto, ho preso un volo per la Svizzera e sono quindi entrata in Italia. In questi passaggi, ho dovuto pagare tutto io: i trasporti, l’hotel dove dormivo. Ho speso una fortuna. Più di 10.000 euro. Tutto quello che ho guadagnato a Taiwan se n’è andato così.

Juvi: per me è stato molto più difficile. Mi ha aiutato un filippino, che per il viaggio e il visto mi ha chiesto 6.000 euro. Quando sono arrivata a Hong Kong, lui non aveva contatti e mi hanno portata all’Immigrazione. Gli ho detto che avevo un volo per il Brasile e dopo alcuni giorni sono riuscita a partire. Il volo era diretto in Francia, dove avrei dovuto prendere il volo per il Brasile, ma non era vero, era solo un modo per arrivare in Francia. Il mio visto era nascosto in una penna a sfera. Quando ero in aeroporto a Parigi, e ho aperto la penna per prendere il visto, mi sono accorta che sul visto non c’era scritto niente! Era finto! Capisci? Mi avevano truffato e rubato tutti i miei soldi! Mi hanno portato all’Immigrazione anche lì e mi hanno detto che dovevo trovarmi un avvocato. E’ costato altri 3.000 euro, che mi hanno dato le mie amiche (Jackie e quella che era già in Italia). Alla fine sono riuscita a entrare in Italia senza visto.

 

Dei due aspetti menzionati all’inizio (infrastrutture delle migrazioni e sistema della fabbrica allargata), vorrei provare ad articolare qualche breve riflessione solo sul primo, alla luce delle significative parole di Jackie e Juvi, per concludere con un esempio che ci riguarda molto da vicino.

Gli autori sopra citati, Xiang e Lindquist, definiscono la “migration infrastructure” come l’insieme di “tecnologie, istituzioni e attori che, sistematicamente interconnessi tra loro, facilitano e condizionano la mobilità” (pag. 124, trad. mia). Le infrastrutture di cui si parla in quell’articolo sono esattamente le stesse che hanno facilitato e condizionato le pratiche di mobilità di Jackie e Juvi, sia verso Taiwan, sia verso l’Italia: commerciali (l’agenzia di recruitment), regolatorie (strutture pubbliche di vario livello e natura, burocratiche, sanitarie, formative), tecnologiche e finanziarie (gli operatori di telefonia, i sistemi di invio di denaro, ecc.). Mi verrebbe da aggiungere che ha scarsa rilevanza il grado di “legalità” di queste infrastrutture – maggiore, almeno formalmente, per il raggiungimento di Taiwan, nulla, nella migrazione verso l’Europa -, mentre assume un significato forte il carattere transnazionale delle stesse. L’agenzia di recruitment, il sistema sanitario e quello burocratico, gli operatori di telefonia e di invio di denaro operano in uno spazio che travalica i confini degli stati-nazione, dialogano con la stessa facilità con operatori, controllano e puniscono i lavoratori, in uno stato o in un altro. “Non sono i migranti che migrano – scrivono i due autori – ma una costellazione fatta di migranti e non-migranti, di attori umani e non-umani. [Questo conduce] a un processo di ‘involuzione infrastrutturale’, in cui le infrastrutture delle migrazioni diventano auto-riproduttive e autoreferenziali” (pag. 124, trad. mia).

Questo modello è lo stesso che il Ministero del Lavoro e la sua poco credibile agenzia Italia Lavoro (lo dico con cognizione di causa) sta usando nel promuovere il sistema migratorio basato su accordi bilaterali con paesi terzi, formazione in loco per la lingua italiana e orientamento professionale, reclutamento di mano d’opera. Le strutture abilitate in Italia ad agire in questo ambito sono state ampliate molto, gli interlocutori locali funzionano da “sparring partner”, alimentando, come mi è stato riferito per la Tunisia, pratiche di corruzione molto diffuse. In tutto questo, svolgono un ruolo importante anche le strutture “umanitarie” (come già hanno segnalato anche Xiang e Lindquist): l’OIM ha partecipato attivamente, nella fase iniziale, a questo progetto, entrando con pieni meriti a far parte della costellazione di cui si è detto prima.

La patina di “legalità” contribuisce a far percepire le migrazioni che si dispiegano all’interno di questo sistema come regolari, libere e meglio finalizzate. L’impressione è che alla base vi siano quelle logiche di autoriproduttività e autoreferenzialità delle infrastrutture che si è detto prima, le quali non tengono conto – ma non potrebbe essere diversamente – di quello che le centinaia di migliaia di Jackie e Juvi mettono in evidenza quotidianamente: la soggettività migrante e il carattere non addomesticabile, imprevedibile e “sublime” delle migrazioni.

 

 



[i] B. Xiang, J. Lindquist, Migration Infrastructure, in Migration International Review, Volume 48, n. S1, 2014, http://onlinelibrary.wiley.com/doi/10.1111/imre.12141/epdf

[ii] Ad esempio: P. Ngai, Chinese Migrant Women Workers in a Dormitory Labour System, http://infocus.asiaportal.info/2009/05/11/maychinese-migrant-women-workers-a-dormitory-labour-system%EF%80%AA-pun-ngai/ , P. Ngai, Cina, la società armoniosa. Sfruttamento e resistenza degli operai migranti, Jaca Book, Milano (a cura di D. Sacchetto e F. Gambino), 2012,     https://www.academia.edu/4827568/Pun_Ngai_Cina_la_societ%C3%A0_armoniosa._Sfruttamento_e_resistenza_degli_operai_migranti_Jaca_Book_Milano_co-curatore_con_F._Gambino_2012 , P. Ngai et al. Nella fabbrica globale. Vite al lavoro e resistenze operaie nei laboratori della Foxconn, Ombre Corte, Verona, 2014. Prefazione all’edizione italiana di D. Sacchetto e F. Gambino

Mare di sabbiaConversazione con A., E. e M.

Settembre 2015


 

La terza intervista che viene pubblicata nel blog Transglobal ha coinvolto tre giovani nigeriani richiedenti asilo. Vi si delinea quello che, a mio parere, rappresenta un nuovo periodo delle migrazioni verso l’Italia, che ha nel “profugo” il suo soggetto centrale e predominante. Le due precedenti interviste pubblicate in questo blog, “Vedevo tutto bianco” e “Nel ventre del drago”, hanno provato a descrivere, nei termini oggettivamente - e soggettivamente - limitati che un’intervista può concedere, rispettivamente il primo e il secondo periodo. Con l’intervista che segue, quindi, si intende provare a chiudere il cerchio, il cui tratteggio è cominciato la scorsa primavera, dando voce a chi ha seguito quelle rotte che, partendo dall’Africa sub sahariana, attraversano il mare di sabbia che la separa dal Mediterraneo.

Il fermare il racconto sulla costa libica ha un duplice motivo: il primo, e forse meno importante, sta nel non voler aggiungere una voce in più alla già affollata, ma giustificatissima, serie di resoconti delle drammatiche condizioni della traversata del Mediterraneo. Il secondo motivo risiede invece nel significato che assume per molti migranti africani il raggiungimento della Libia, non solo nei termini che possono, volutamente, trasparire dal titolo di questo resoconto (chi può dire quanti morti ha inghiottito il Sahara, con le sue condizioni climatiche, i suoi mezzi di trasporto che definire “carrette” offenderebbe le barche così chiamate per l’attraversamento del Mediterraneo, ma soprattutto con i suoi lager, guardiani armati e predatori?), ma, come si vedrà, per le aspettative e la progettualità che sta molto spesso (e del tutto ignorata da questo lato del Mediterraneo) alla base dei movimenti migratori trans-sahariani.

 

Nawao!

 

S.R.: Vorrei chiedervi se potete abbozzare una descrizione delle ragioni che sono state alla base della vostra decisione di partire dalla Nigeria, ben sapendo che, in quanto richiedenti asilo, non tutto può essere detto.

A.: In effetti, una parte di queste motivazioni costituiscono un segreto nostro, che, per varie ragioni, preferiamo tenerci per noi.

E.: Nawao! [A. ride. Chiedo cosa significhi] E’ un’espressione in slang nigeriano che serve a manifestare una brutta sensazione, un brutto ricordo, o cose simili.

A.: Ok. Posso riassumerle in modo molto breve. Una situazione di merda. In Nigeria, se non hai i soldi, se non conosci qualcuno di importante, non puoi fare niente, assolutamente niente. Noi tutti, al di là delle differenze, avevamo dei progetti, alcuni legati a esperienze lavorative o formative, altri a esigenze familiari. Io, personalmente, sono partito per questo motivo: non avevo nessuna speranza di realizzare il mio progetto.

E.: Oltre a questo, io ho un motivo molto particolare. Nella nostra tradizione, quando muore un re locale, devono essere uccise diverse persone per essere seppellite con lui e per accompagnarlo. Mio padre era incaricato di questo e io ero uno dei predestinati. I ragazzi venivano rapiti quando si recavano al fiume, cosa che poteva accadere tutti i giorni. Mia madre mi ha spinto a scappare: questo ha creato un forte conflitto tra i miei genitori e in generale nella mia famiglia, perché mi ha aiutato mia sorella a raggiungere la Libia.

M.: Per me la ragione è più di carattere religioso. Sono nato in un’area cristiana, ma mio padre non è cristiano, è musulmano. Voleva che diventassi musulmano anch’io, ma io non volevo. Lui aveva un potere enorme su di me: poteva farmi qualunque cosa in ogni momento pur di raggiungere il suo obiettivo. Per me, partire ha significato riscattare la mia vita.

S.R.: Come è avvenuta la partenza dalla Nigeria?

A.: Tutti seguono lo stesso percorso. Si raggiunge con vari mezzi Zindar, in Niger. Il tragitto, di solito, avviene sul tetto di autobus o su camion stracarichi, con il rischio di cadere giù ogni momento, se non ti tieni molto forte. Da Lagos a Zindar è un viaggio di tre giorni. Già questo tragitto è quasi tutto nel deserto.

M.: Da Zindar il viaggio prosegue verso la Libia. Si raggiunge Sabha in una settimana, sempre nelle stesse condizioni, passando da Tigirin e Qatrun. Lungo questo percorso, non c’è una strada: solo una pista nel deserto. I mezzi di trasporto sono aperti, devi legarti a qualcosa per non correre il rischio di cadere. E molti, infatti, cadono.

 

 

 

 

Rapimenti e al-zanzana

 

E.: In Sabha ci sono molti rapimenti, oltre che il rischio continuo che ti sparino in mezzo alla strada, senza nessun motivo, quasi come fosse un divertimento. Tre che erano con noi sono morti così. Arrivano da te, armati, ti chiedono soldi e cellulare: a quel punto possono ucciderti o rapirti, per costringerti a chiedere alla tua famiglia i soldi per il riscatto. Tutti girano armati, anche i bambini: chiunque può ucciderti, così, all’improvviso.

A.: Da Sabha a Tripoli è la parte più rischiosa del viaggio: ci sono soldati lungo la strada che fermano i mezzi. Se ti prendono ti portano in prigione [usa il termine arabo per prigione, o più precisamente cella, al-zanzana, a sottolineare la frequenza con cui ricorre nelle conversazioni tra i migranti. I termini che vengono mantenuti in una lingua diversa da quella del racconto hanno sempre un portato specifico, che può essere positivo o negativo, quasi a sottolinearne l’intraducibilità in un’altra lingua, data dall’associazione del luogo a determinate condizioni del luogo stesso.]: quello è il rischio maggiore. Ti picchiano continuamente, ti lasciano sotto il sole. Le condizioni in zanzana sono spaventose: sono affollatissime, senza finestre, con un buco nel pavimento come toilette. Noi non ci siamo stati in zanzana, ma io sono stato rapito in Sabha. Mi hanno tenuto tre mesi in una casa in costruzione! Mi hanno costretto a telefonare a casa dei miei, dicendogli che se non facevano arrivare i soldi, io ero morto. Sono riuscito a scappare, ma è stato una specie di miracolo che sono vivo, perché se provi a scappare e ti prendono, ti uccidono subito.

E.: Se ti prendono e ti portano in zanzana, molto probabilmente per te è finita. Puoi starci anche oltre un anno. Se sei con la moglie e con le figlie, è quasi certo che verranno violentate. Oltre ai maltrattamenti e le violenze, si prendono anche malattie e nessuno ti cura. E’ come stare su una barca nel Mediterraneo, ma non per tre giorni, per un anno, o di più. Capisci di cosa sto parlando?

M.: Non saprei dire quanti, tra quelli che partono dalla Nigeria, muoiono nel viaggio, di omicidio, in zanzana. Io stesso ne conosco alcuni della zona da dove vengo che sono partiti e di cui non si sa più niente.

 

Lavorare in Libia. Partire o morire

 

S.R.: Mi potreste raccontare del periodo che siete stati Libia, fino al momento della vostra partenza per l’Italia?

A.: Tutti dicevano in Nigeria che in Libia c’è tanto lavoro. E’ vero, solo che non ti pagano. Ti chiamano per costruire una casa, lavori per dieci-quindici giorni e poi ti dicono, minacciandoti, Imsh, Imsh [Vai, vai], senza darti niente. A quel punto sai che non puoi né protestare, né rivolgerti a qualcuno, perché lì non sei nessuno. Questo accade ovunque: a Sabha, a Brak, a Tripoli, ovunque. Se non te ne andavi, ti sparavano.

E.: Io ho vissuto così sei mesi a Sabha, un giorno ti pagavano e dieci no. Tieni presente che a Sabha fa un caldo infernale [si trova nel sud della Libia].

M.: Non è proprio corretto dire che nessuno ti pagava per il lavoro. Alcuni pagavano, ma sono una piccola minoranza. Diciamo che l’80% non pagava. Tra questi c’erano sia i white libians [i libici di origine araba] sia i black libians [i libici di origine africana, in buona parte provenienti dal Sudan, Chad e dal Corno d’Africa, presenti soprattutto nel sud]. Ma questi ultimi sono i più pericolosi, i più aggressivi; anche molti white libians hanno paura di loro [va detto che, nel 2011, dopo la caduta di Ghaddafi, si è scatenata una vera e propria caccia al nero libico, associato sempre all’appartenente alle milizie di Ghaddafi, il che, in moltissimi casi, non era vero]. Si può dire che i white libians stiano imparando da loro.

A.: Da Sabha a Brak [o Birak, città nel deserto libico, sul cammino per Tripoli] è un viaggio molto pericoloso: dura tre giorni. Quando ero a Brak, mi hanno portato a Tripoli di nascosto, perché c’erano molti soldati lungo strada: essere presi, significa essere certamente portati in zanzana. Bisogna fare tutto il viaggio nascosti, con un caldo insopportabile, solo con l’acqua e il cibo che si è riusciti a recuperare prima della partenza.

M.: Ci sono degli intermediari [brokers, nell’intervista] che vengono a cercare le persone a Brak, per chiedere a chi è arrivato lì se vuole lavorare a Tripoli; a quel punto, organizzano il viaggio. Devono essere almeno una ventina di persone, poi si parte. Ti dicono che se non hai soldi per pagare non c’è problema, perché il viaggio si pagherà con i soldi che dovresti guadagnare lavorando a Tripoli, ben sapendo come vanno le cose. Ma questo per loro non è un problema: se non ti pagano, chi ti ha portato a Tripoli prende comunque dei soldi da chi ti ha fatto lavorare. Si tratta soprattutto di lavori nelle costruzioni, come muratori, piastrellisti, coloritori, saldatori e nelle stazioni per il lavaggio delle macchine.

E.: Anche a Tripoli la vita è molto rischiosa: devi nasconderti sempre. Per andare giro a volte ci vestivamo come donne [con il viso e il corpo coperto]. Noi dormivamo in un posto con molte altre persone, tutte africane. I libici controllavano il posto e un giorno è entrato un gruppo di Asma boys [una gang di giovani libici, famosi tra i migranti per la loro efferatezza] per farsi dare soldi e telefoni. Ci hanno fatti sdraiare in terra e hanno ucciso un ragazzo. Dopo questo episodio, ho deciso di andarmene da Libia e venire in Italia. Un giorno ho visto molta gente correre verso il mare: li ho seguiti e ho visto che entravano in una grande barca. Sono entrato anch’io, senza soldi.

M.: Se hai qualche amico libico, si può lavorare bene in Libia. Noi stessi avevamo intenzione di andare in Libia per lavorare lì e guadagnare. Non avevamo nessun programma di venire in Italia. C’è un posto che si chiama Shogo Ground, dove tutti gli africani e stranieri in generale vanno a offrirsi per lavorare. Passano i libici e ti chiedono se vuoi fare un certo lavoro. Il rischio che non ti paghino, anche lì, è molto alto.

Un giorno, lavoravo per un persona che mi chiesto perché continuavo a stare in Libia e non andavo in Italia. Dopo pochi giorni, mi ha portato nel posto dove c’erano oltre cento persone ad aspettare di prendere la barca per attraversare il mare.

A.: Io non sapevo che dalla Libia si potesse raggiungere l’Italia, non ne avevo mai sentito parlare. Ho deciso di partire perché avevo capito che il progetto che volevo realizzare in Libia era solo un sogno, quindi ho deciso di partire con la barca. Io ho pagato circa 200 euro: erano gli unici soldi che avevo con me, quello che ero riuscito a guadagnare. Io lavoravo in Brak come saldatore, anzi, ho imparato lì il mestiere. Per fortuna mi pagavano. E’ lì che ho sentito parlare della possibilità di raggiungere l’Italia.

Quando ero in Nigeria, pensavo che la Libia fosse un paese diverso, un posto dove si può imparare un mestiere, guadagnare bene, inviare i soldi a casa e tornare. Quando ho visto quello che succede lì, ho capito che non era quello il posto dove volevo stare. Ho chiesto al mio datore di lavoro come potevo raggiungere Tripoli e l’Italia. Mi ha portato lui a Tripoli e mi ha messo in un posto con altre persone. Da lì poi ho trovato il modo per salire sulla barca.

 

 

Quello che si vuole provare a mettere in discussione in queste righe conclusive è la validità della distinzione tra “profugo” e “migrante”, una distinzione che viene continuamente ripresa nella definizione delle scelte politiche europee e dei suoi stati membri in materia di accoglienza.  Sono di questi giorni di inizio settembre le notizie riguardo un’apertura molto consistente da parte della Germania nei confronti dei profughi siriani, seguita subito da una dichiarazione simile, ma più ambigua, da parte del primo ministro inglese. Quello su cui si vuole mettere l’accento è un punto di vista relativo alla stessa faccia della medaglia, che ne metta in evidenza un aspetto certamente meno, o per nulla, evidenziato dai media e dai dibattiti mainstream sulle migrazioni. Qual è la ragione di fondo che porta a distinguere tra “veri profughi” e “falsi profughi”, e che, all’interno dei primi, porta a definire la scala di priorità e di appetibilità di una parte di questi rispetto ad altri? Dando per scontato, come ha ben argomentato Sandro Mezzadra nel suo intervento in questo blog, che è del tutto paradossale e fuorviante distinguere tra “migrazioni forzate” e “migrazioni volontarie”, le ragioni tanto della prima distinzione, quanto della seconda sono da cercarsi nel tentativo, sempre rinnovato e mai completamente raggiunto, di mettere in atto politiche di management, di controllo e selezione da parte dei governi del nord del pianeta nei confronti dei flussi migratori. A questa combinazione straordinaria e potente di forze politiche, quindi anche militari e poliziesche, la moltitudine dei migranti risponde sempre allo stesso modo: mettendo in campo l’imprevedibilità delle scelte e la soggettività che si dispiega al loro interno. Detto in altre parole, la messa in campo di un’agency, un agire fortemente consapevole e “scelto”, che si dispiega al di qua e al di là delle frontiere e che caratterizza, travalicando e travolgendo le politiche più o meno “umanitarie” europee, i movimenti continentali o transcontinentali dei migranti.

A., E. e M stanno dentro a questo quadro. Sono “profughi” o “migranti”? Hanno scelto liberamente di venire in Europa o vi sono stati costretti? La Nigeria e il delta del Niger in particolare distrutti economicamente, socialmente ed ecologicamente dalle multinazionali del petrolio (Eni in testa) e da decenni di sostegno europeo a tutto quanto c’è di corrotto, corruttibile e predabile è da considerarsi un’area da cui fuggire? La risposta sta certamente in un’affermazione fatta da uno di loro e non riportata nell’intervista. Alla domanda se si considerano profughi, la risposta è stata: “non lo so, non capisco esattamente cosa significhi. Credo che quasi tutta l’Africa si possa considerare una zona da cui chi parte è un profugo, oppure un migrante. Qual è la differenza?

 

 

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