su "fuocoammare", quando la critica si contorce su se stessa

Stefano Rota

E' comparso su Deco(k)now, importante rivista sulla decolonizzazione dei saperi, un articolo di critica sul film di Rosi "Fuocoammare". Un lungo e contorto susseguirsi di visioni, suggestioni, chiavi di lettura del film, il cui unico fondamento sembra essere quello del piacere di ascoltarsi, o leggersi, in questo caso, di stupire e stupirsi.

 

Provo a dire qualcosa sull'articolo di Mellino e Orlandini su Deco[K]now (http://www.decoknow.net/fuocoammare-o-frammenti-di-un-disc…/ ) sul film “fuocoammare” con due premesse: la prima è che ho una grande stima verso Miguel Mellino (non conosco Orlandini), la seconda è che non condivido quanto espresso in questo intervento.

L'impressione che ho è che, partendo da una lettura generale che condivido totalmente, si è cercato di trascinare all'interno di questa elementi che, a mio parere, non spiegano assolutamente niente di quello che è il punto di partenza, l'ipotesi di base. 
Questa, se ho capito bene, è che il cinema italiano (ma si potrebbe estendere a dismisura l'ambito) non riesce ad andare oltre, sul tema delle migrazioni e nello specifico dei “rifugiati” ( ponendo una distinzione tra questi e i migranti che credo non esista), una rappresentazione del fenomeno fatta di paternalismo, buoni sentimenti, evitando sistematicamente di metterne in evidenza aspetti relativi la complessità soggettiva, che risulta, quindi, appiattita su e codificata e veicolata unicamente attraverso le rappresentazioni di corpi, vittime da salvare, da aiutare. Così agendo, viene continuamente rimosso quel “punto d’incontro, di sutura, tra – da una parte – i discorsi e le pratiche [che] cercano di interpellare, di parlarci o di sistemarci come soggetti sociali di determinati discorsi, e – dall’altra – i processi che producono soggettività, che ci costituiscono come soggetti che possono essere ‘parlati’”, come scrive S. Hall a proposito della definizione di identità. L’identità che ne emerge, quindi, è unilateralmente costruita: i processi che producono una determinata soggettività non appaiono da nessuna parte, vengono omessi, insieme alla responsabilità storica dell’Europa, come elemento forte della loro produzione e riproduzione.

Se questa è l’ipotesi (ma chiedo conferma), come ho già detto, sono perfettamente d’accordo. Quello su cui non concordo, invece, è (quasi) tutto quanto viene presentato a suo sostegno. Andiamo per ordine.

Due paragrafi, non consecutivi tra loro, estrapolati dall’articolo.

“Si pensi qui alla codificazione degli sbarchi proposta dal film, la cui “messa in scena” appare chiaramente del tutto interna alla logica vittimizzante e de-soggettivante dell’attuale ragione umanitaria di governo fondata sulla sofferenza e la compassione”.

“le violenze ci vengono “narrate” come qualcosa di lontano e scisso da noi (dall’Europa e dalle sue responsabilità), hanno a che fare con la Libia, il Sudan, la Siria, l’Africa, l’ISIS, ovvero con nomi che finiscono per apparire come gli “unici” significanti cattivi del film, e che non fanno che iscriversi ulteriormente in quell’immaginario orientalista e coloniale che da sempre connota quei territori come oscuri, incivili, afflitti da violenze endemiche e “tribali”.”

Scusate, qui sorge inevitabilmente una domanda: avete mai parlato con qualcuno che è sbarcato a Lampedusa, venendo da un periodo, magari di due anni, trascorso in Libia e magari un altro anno impiegato a raggiungerla, tra sequestri, incarcerazioni, Asma boys (li conoscete?), stupri, omicidi di amici, lavori mai pagati, ecc.? Potrei continuare a lungo, perché io sono da oltre un anno in contatto quotidiano con chi sbarca a Lampedusa.
Quell’immaginario orientalista e coloniale ben descritto da Said e altri è molto chiaro e deprecabile. Peccato che qui, a mio parere, non c’entri niente.

“Nel clima di umanità melensa, di stucchevoli buoni sentimenti e di semplicità provinciale quasi verginale attraverso cui viene costruita la Lampedusa del film”. 

Altra domanda: abbiamo visto lo stesso film? In quello che ho visto io c’erano due bambini che prendeva a sassate gli uccellini, una donna che piange il marito morto in mare (se mi ricordo bene), un annoiato radio dj come se ne possono incontrare a migliaia nelle province del Sud e altri personaggi che di melenso, mi sembra, non avevano proprio niente, neppure il medico che cerca faticosamente di far capire alla donna incinta il genere dei due gemelli.
Non sono uno spaccato fedele della popolazione lampedusana? I personaggi del “sacro GRA” erano uno spaccato fedele degli abitanti delle periferie romane? La risposta è negativa in entrambi i casi, ma non perché il registra abbia fallito, in buona o cattiva fede, in questo. Semplicemente non voleva proporlo, credo.

Ancora su questo argomento: “Ogni personaggio del film – i due bambini, le casalinghe rigorosamente “orientalizzate” o “sicilianizzate”, il medico, i carabinieri, i lavoratori, i pescatori, il conduttore del programma radio ecc. – svolge la sua vita quotidiana facendo il “bene”, mostrando il suo “umile” e “faticoso” apporto al “bene comune” all’interno di una comunità locale codificata come qualcosa di molto vicino allo stato di natura ipotizzato da Rousseau sul buon selvaggio”.

Francamente su questo passaggio sono impotente. Non riesco a trovare parole adeguate a descrivere il mio sgomento.

Poi arriva il pezzo forte: “Particolarmente grottesche – poiché pervase da un infantilizzazione parrocchiale e coloniale – appaiono le riprese in cui i migranti vengono sollecitati (e messi in quel luogo di enunciazione) dalla cinepresa a “raccontare” e “cantare” a suon di rap le violenze subite”.

Ne segue, inevitabilmente, un’altra domanda: uscendo dai vostri dipartimenti universitari, vi è mai venuta la curiosità di entrare in un posto dove pregano i nigeriani? Se un giorno ve ne venisse la voglia, scoprirete che, quello riprodotto nel film, è esattamente il loro modo di pregare. Non vi piace? Pazienza.

Ancora riferito allo stesso passaggio: “Ma cerchiamo di essere chiari (Oh, finalmente!): non che il “canto” del proprio sfruttamento o delle proprie miserie sia di per sé privo di forza o di autonomia soggettiva, la storia dei soggetti oppressi (schiavi, indigeni, proletariato industriale, neri, banlieusard ecc.) ci dice proprio il contrario; il problema qui è la cornice di significazione “paternalistica” in cui questa “presa di parola” viene inserita, che non fa che addomesticare ogni istinto ribelle”.

Precisazione di importanza fondamentale. Adesso è tutto chiaro: il migrante, quando arriva, ha innestato in sé, aprioristicamente, essenzialisticamente, un istinto ribelle. Abbiamo incontrato migranti diversi, non c’è dubbio.

Ma ci sono due passaggi su cui, invece, mi trovo totalmente d’accordo, come già detto all’inizio:

“È così che altre realtà (se così si vuole chiamarle) costitutive dell’esperienza e della soggettività migrante in Italia – fughe e rivolte nei Centri d’accoglienza, insorgenze spontanee come quelle di Rosarno e Castel Volturno, partecipazione a “scioperi sociali”, lotte contro lo sfruttamento delle cooperative nel settore della logistica, rifiuto a farsi prendere le impronte digitali o a farsi deportare dove decidono le autorità, reazioni al razzismo istituzionale e popolare, produzione di spazi sociali meticci, ecc. – restano per lo più o fuori dall’occhio cinematografico italiano”. 
“Non che un’estetica “realista” o documentaristica sia di per sé semplificatoria o banalizzante: anzi, film come quelli dei fratelli Jean-Pierre e Luc Dardenne (La promesse, Rosetta, Il matrimonio di Lorna), di J. Audiard (Il Profeta, Dheepan), di A. Kechiche (La schivata), di F. Akin (La sposa turca) o del Kassovitz de L’odio, tanto per citare alcuni, ci dicono il contrario.”

 

E’ tutto vero, lo condivido totalmente. Peccato che sia stato inserito nell’articolo sbagliato, dove si parla di una realtà totalmente diversa da quella raccontata nei film citati, che ho visto e apprezzato tutti.

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