Deleuze, schizoanalista

di Suely Rolnik* (traduzione dal portoghese di Stefano Rota)

 “Non perdere mai la tua grazia, cioè a dire, i poteri di una canzone”

 

Prima scena: 1973. Da tre anni seguo i seminari di Deleuze a Vincennes 1 e da un anno sono in analisi da Guattari. Con il suo abituale senso dell’umorismo, Deleuze dice che è il mio schizoanalista. In questo giorno, mi propone di sviluppare un lavoro con lui, offrendomi un regalo e un tema: un LP con l’opera Lulu di Alban Berg e il suggerimento di mettere a confronto il grido di morte di Lulu, personaggio principale di quest’opera, a quello di Maria, personaggio di Wozzeck, un’altra opera dello stesso compositore.

Lulu di Berg, assorbita dall’immagine di Louise Brooks che la interpreta nel bel film di Pabst, è una donna esuberante e seduttrice, attratta da molte specie di mondi, con i quali tende a coinvolgersi, in una vita di deriva sperimentale. In una di queste avventure, la sua vitalità subisce l’impatto di forze reattive che la spingono ad abbandonare il paese.

Nel freddo miserabile di una notte di Natale nella sua città d’esilio, Lulu va in strada a procurasi dei soldi. Nell’anonimato di prostituta, incontra niente di meno che Jack lo squartatore, il quale, inesorabilmente, finirà con assasinarla. Vedendo in anticipo la propria morte nell’immagine del suo volto riflessa nella lama del coltello che l’assassino le punta contro, Lulu emette un grido lacerante. Il timbro della sua voce ha una strana forza che congela Jack al punto da farlo esitare per alcuni secondi.

Anche noi siamo raggiunti da questa forza: estasiati, sentiamo vibrare nel nostro corpo il dolore di una vita vigorosa che non vuole morire.

L’altra donna, Maria, è la sposa grigia di un soldato. Il suo grido di morte è quasi inudibile: si confonde con il paesaggio sonoro. Il timbro della sua voce ci trasmette il pallido dolore di una vita insulsa, come se vivere fosse uguale a morire. Il grido di Lulu ci rivitalizza, nonostante e, paradossalmente, a causa dell’intensità del suo dolore. Il grido di Maria ci trascina ora verso una specie di malinconia che tinge il mondo di una monotonia senza gioia.

 

Seconda scena: 1978. Lo scenario è quello di una delle lezioni di canto che faccio di sabato pomeriggio con due amiche. L’insegnante è Tamia, cantante di musica contemporanea e di free jazz, uno stile in piena effervescenza negli anni Settanta parigini. Quel giorno, con nostra sorpresa, Tamia chiede che ognuna di noi scelga una canzone su cui si farà il lavoro d’aula.

 

La mia è una delle tante del “Tropicalismo” – versioni musicali dell’intenso movimento di creazione culturale ed esistenziale che si viveva in Brasile alla fine degli anni Sessanta, la cui brutale interruzione da parte della dittatura fu la causa del mio esilio a Parigi. “Cantare come un passero la mattina presto … Apri le ali, passero, che voglio volare … portami alla finestra della ragazza, sulla sponda del fiume …” Cantava Gal con il timbro soave e amorevole di alcune sue interpretazioni.

 

Man mano che canto, una vibrazione simile si impossessa della mia voce; esitante all’inizio, il timbro guadagna corpo poco a poco, sempre più cristallino. Vengo presa da una sensazione strana: la sensazione che quel timbro mi appartenga da sempre, come se non avesse mai smesso di esistere nella memoria corporale della mia voce, anche se messo a silenzio per molto tempo. Nonostante sia soave, la sua vibrazione perfora con fermezza un punto del mio corpo e si prende tutto lo spazio della sala. L’atto di perforazione fa sì che scopra nella superficie bianca della salopette e della maglia che indosso una pelle compatta che avvolge il mio corpo come uno spesso strato di gesso. Di più: sembra che stia lì da molto tempo, senza che l’abbia mai notata. La cosa curiosa è che il corpo si rivela nella sua pietrificazione nello stesso momento in cui il delicato filo di voce lo perfora, come se in qualche modo pelle e voce fossero intrecciati, sovrapposti. Sarà che il corpo si è irrigidito con lo scomparire di quel timbro? Qualunque sia la risposta, il gesso è diventato adesso un ostacolo: si dà l’urgenza di liberarmi da questa corazza. Decido, lì sul momento, di tornare in Brasile, anche se fino a quel momento non avevo mai pensato di lasciare Parigi. Tornai e non ebbi mai il dubbio sulla giustezza della mia decisione.

Impiegai alcuni anni per capire quello che era successo in quella lezione di canto, e altrettanti per rendermi conto che ciò poteva avere una relazione con il lavoro che mi aveva proposto Deleuze. Quello che il canto annunciava nella memoria del mio corpo in quel sabato pomeriggio era che il segno della ferita nel desiderio causata dalla dittatura militare si era sufficientemente cicatrizzata da permettermi di tornare in Brasile, se avessi voluto.

 

Cosa sto designando qui con la nozione di “desiderio”?

In poche parole: impulso di attrazione che ci porta verso certi universi e impulso di repulsione che ci allontana da altri, senza che si sappia esattamente perché, guidati ciecamente dagli affetti che ognuno di questi incontri genera nel nostro corpo; forme di espressione che creiamo per trasferire nella forma del visibile e del dicibile gli stati sensibili che quelle connessioni e disconnessioni producono nella soggettività; metamorfosi di noi stessi e dei nostri territori di esistenza che si producono in questo processo. I regimi totalitari, dunque, non incidono solo sulla realtà concreta, ma anche su questa impalpabile realtà del desiderio. Violenza invisibile, ma non per questo meno inesorabile.

Dal punto di vista micropolitico, i regimi di questa natura corrispondono al trionfo delle forze conservatrici del senso-comune sulle forze di invenzione. Il pensiero si fa più timido e si ritrae, associato al pericolo della punizione che può incidere tanto sull’immagine sociale, stigmatizzandola, quanto sul corpo stesso con differenti gradi di brutalità, che vanno dalla prigione, alla tortura, all’assassinio. Umiliata ed esautorata, la dinamica creatrice del desiderio si paralizza sotto il dominio della paura, spesso accompagnata da senso di colpa; nonostante questo blocco abbia il fine della preservazione della vita, può arrivare a tradursi in una quasi-morte. Il trauma dovuto a esperienze di questo tipo lascia il segno velenoso di una disaffezione al vivere e della impossibilità di pensare; una ferita nel desiderio che può contaminare tutto, inficiando gran parte dei movimenti di connessione e dei gesti di invenzione che attivano.

 

Una delle strategie usate per proteggersi da questo veleno consiste nell’anestetizzare i segni del trauma all’interno dell’ambito affettivo. Isolandoli sotto il manto dell’oblio, si evita che il loro veleno infetti il resto, riuscendo in questo modo a continuare a vivere. Ma la sindrome dell’oblio tende a includere molto di più dei segni del trauma, dato che il circuito affettivo non è una mappa fissa, ma una cartografia che si rinnova continuamente, e ogni punto può collegarsi a qualunque altro punto in qualunque momento. E’ quindi una gran parte della “vibrabilità” del corpo che ne risulta anestetizzata. Uno degli effetti più nefasti di questa narcosi è che l’atto di parola si separa dal sensibile, dalla sua realtà corporea, luogo della relazione viva con il mondo che alimenta la sua densità poetica.

L’esilio a Parigi ebbe il senso di proteggermi dalla scossa sismica che l’esperienza della dittatura e della prigione avevano prodotto in me. Protezione oggettiva e concreta data dalla distanza geografica, ma anche, e soprattutto, soggettiva e desiderante data dal trasferimento nella lingua. Abbandonai totalmente il portoghese e, con quello, i segni velenosi della paura che non consentivano i movimenti del desiderio. Per evitare qualunque contatto con la lingua, evitavo anche contatti con i brasiliani. Mi installai nel francese come lingua adottiva, senza alcun accento, come se fosse la mia lingua madre, al punto che molte volte non venivo percepita come straniera. La lingua francese cominciò a funzionare come una specie di gesso che conteneva e rendeva coeso un corpo affettivo agonizzante; un riparo clandestino in cui si raccoglievano i pezzi feriti della mia memoria corporea, consentendomi di fare nuove connessioni e riprendere a sperimentare certi affetti che erano diventati terrorizzanti nella mia lingua d’origine. In quell’aula di canto, nove anni dopo il mio arrivo a Parigi, qualcosa in me seppe, senza che me ne rendessi conto, che l’avvelenamento era stato curato il sufficiente perché io non mi sentissi più in pericolo di contaminazione. Il timbro soave di un piacere di vivere riemergeva e mi riportava indietro, adesso senza più terrore.

 

Ma cosa accadde in quel giorno?

Il gesso, che fu fino a quel momento garanzia di sopravvivenza al punto da confondersi con la mia stessa pelle, perde ragione di esistere nel momento in cui il timbro soave e amorevole recupera il coraggio di manifestarsi. Quello che fu una cura per l’ancheggiare sgraziato del desiderio passa ora ad avere l’effetto paradossale di bloccare la sua dinamica. Credo sia questo che ha fatto sì che in quell’aula accadesse tutto insieme – il riapparire del timbro, la scoperta della dura corazza che mi avvolgeva e l’asfissia che mi causava in quel momento. Come tutte le strategie difensive, il gesso costituito dalla lingua francese che aveva funzionato come territorio attraverso cui la mia vita si poté espandere in quel determinato periodo, produsse anche l’effetto collaterale di limitazione. Ma l’effetto restrittivo può essere problematizzato solo quando non è più necessaria la difesa: le innumerevoli connessioni che avevo stabilito nella lingua adottiva riattivarono il processo sperimentale del desiderio, creando le condizioni per riprendere il movimento nella lingua ferita. Ero guarita: non dai segni del dolore causati dal dispotismo, che sono indelebili, ma dai suoi effetti tossici. E’ nel canto, espressione del corpo della lingua, riserva di memoria degli affetti, che si è concretizzata la metabolizzazione degli effetti del trauma e, con essa, il dissolvimento della sindrome da dimenticanza che avevo sviluppato per non morire.

 

Cosa ha questo a vedere con Lulu di Deleuze?

Arrivo a Parigi portando nel mio corpo segnato dal Brasile della dittatura una specie di mancanza di desiderio, trascinando una uguale mancanza di volontà di vivere e del gesto di creazione che ha in essa la sua origine e la condizione della sua esistenza. Sentire Deleuze, nelle sue lezioni, aveva in sé il misterioso potere di togliermi da questa condizione. Qualcosa che non passava necessariamente dalle sue parole - all’inizio sapevo a malapena il francese - ma per la qualità poetica della sua esistenza, soprattutto la voce. Quel timbro trasmetteva la ricchezza di stati sensibili che popolavano il suo corpo; le parole e il ritmo dei suoi concatenamenti sembravano emergere da quegli stati, delicatamente scolpiti dai movimenti del desiderio. Una trasmissione impercettibile che contagiava chiunque la sentisse.

E’ in questo terreno che Deleuze mi propone di studiare il grido di morte di quelle due donne. La strana forza che il grido di Lulu veicola è quello di una energica reazione alla morte. E’ la potenza che sentiamo vibrare nel corpo e che ha l’effetto di rivitalizzarlo, nonostante e a causa dell’intensità del dolore. Il grido di Maria, invece, trasmette una melanconica rassegnazione che intristisce e devitalizza i suoi ascoltatori. Nel confronto tra queste due grida appaio diversi gradi di affermazione della vita, proprio, e soprattutto, di fronte alla morte. Si tratta dell’apprendimento che anche nelle situazioni più avverse è possibile resistere al terrorismo verso la vita, nella potenza desiderante e ingegnosa che vi è in essa e continuare ostinatamente a vivere. Le grida associate di Maria e Lulu ci trasmettono questo apprendimento e ci contaminano.

 

E’ ovvio che non ero in grado di pensare niente di tutto ciò quando Deleuze mi suggerì quel lavoro. Forse perché la sua figura intimidiva la fragilità dei miei 24 anni, nonostante niente nella sua attitudine giustificasse qualunque forma di riverenza e inibizione; più probabilmente perché la ferita era troppo recente, perché potessi aprire una breccia nella strategia difensiva di cui mi ero armata per proteggermi dall’avvelenamento del desiderio prodotto dalla crudeltà della dittatura militare. Nel frattempo, la direzione che Deleuze mi aveva indicato con Lulu e Maria si installò impercettibilmente nel mio corpo e iniziò a operare in silenzio, ossigenando poco alla volta le fibre del desiderio, riattivando i suoi movimenti e il lavoro vitale del pensiero li accompagnano. Sei anni dopo, il mio canto di passero “tropicalista” rese udibile il fatto che il timbro affermativo di Lulu davanti alla brutalità riprese a suonare nella mia voce, sovrapponendosi al timbro negativo di Maria. Adesso potevo riconnettere il corpo, parlare per mezzo del canto dei suoi stati sensibili, reintegrare nella voce canto e parola. Deleuze, di fatto, era stato il mio schizoanalista, innescando, per mezzo di un grido nel canto, il movimento di un effetto liberatorio, nonostante questo si sia manifestato molti anni più tardi.

 

Pochi mesi dopo la morte di Guattari, in risposta a una lettera che inviai a Deleuze, evocando i tempi in cui lui si definiva il mio schizoanalista e raccontandogli dove tutto quello era sfociato, lui risponde con la sua elegante generosità, tipica di una scrittura in cui non mancano né avanzano parole per dire l’indicibile e niente di più. Tra le altre cose, commenta il vuoto che gli aveva lasciato la scomparsa di Guattari e chiude la lettera dicendo: “Non perdere mai la tua grazia, cioè a dire, i poteri di una canzone”.

 

Dentro queste parole, quel che è certo è che mi stava dicendo che erigere nuovamente il desiderio dalle sue mancanze e rimetterlo in movimento, resuscitando la volontà di vivere e il piacere di pensare è sempre possibile e, ancor più, questo dono appare dove meno te lo aspetti: una semplice canzone popolare. Per sostenere, però, situazioni cariche di tali poteri è necessario disinvestire nella gerarchia di valori culturali stabiliti nella cartografia immaginaria vigente e, soprattutto, affinare l’ascolto degli affetti che ogni incontro mobilita e considerarli criterio privilegiato nell’orientamento delle nostre scelte. Questa disponibilità a lasciarsi contaminare dal misterioso potere della rigenerazione della forza vitale, ovunque esso sia, non sarà proprio quello che Deleuze ha chiamato “grazia”?

 

Comunque sia, prende forma qui la figura inaspettata di un Deleuze schizoanalista. Nonostante sia personalmente presente in questa piccola storia, la potenza di combattere l’intollerabile che emerge da questo scritto trascende la sua persona e, ovviamente, i postumi della dittatura militare. Appartiene al suo pensiero e pulsa invisibile in tutta la sua opera offrendosi a chiunque la desideri ricevere.

 

Un concetto deleuziano

Schizoanalisi è il nome che Deleuze e Guattari dettero all’aspetto clinico della loro teoria del desiderio. Mentre la psicanalisi parte da un modello di psiche fondato sullo studio dei neuroni, avendo come asse la persona e le identificazioni, la schizoanalisi trova ispirazione primariamente nelle ricerche sulla psicosi; si rifiuta di ribaltare il desiderio sull’ambito dei sistemi personologici, per enfatizzarne la natura produttiva e creatrice, parte integrante del campo sociale e culturale e responsabile delle sue metamorfosi. La schizoanalisi è presente nella pratica clinica e teorica di psicoterapeuti di differente orientamento, soprattutto psicanalisti, che fanno riferimento al pensiero di Deleuze e Guattari non solo nella loro pratica, ma anche nel lavoro con gruppi e istituzioni, in cui vi è una relazione stretta con la psicosi e l’ambito della salute pubblica. Si può inoltre dire che la schizoanalisi trova dimora, anche se non in forma esplicita, nell’immaginario di psicanalisti di diverso orientamento – e non solo di quelli che la rivendicano – funzionando come una sorta di richiamo alla dimensione critica della clinica.

 

 

*Suely Rolnik é psicanalista, crítica culturale e curatrice. Docente alla PUC-SP, coordina il Núcleo de Estudos da Subjetividade Contemporânea no Pós-Graduação de Psicologia Clínica. Traduttrice dei volumi III e IV di Mille Piani, di Deleuze e Guattari (Ed. portoghese, 34, 1997)

 

L’articolo è stato pubblicato originariamente in portoghese su Revista cult

 

 

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