La pandemia ha democratizzato il potere di uccidere

Achille Mbembe* intervistato da Diogo Bercito

(traduzione dal portoghese di Stefano Rota)

“Alcuni moriranno? Moriranno. Mi dispiace, è la vita”, ha detto il “brasiliano” recentemente.

 

 

Quali sono le sue prime impressioni sulla pandemia?

 

Al momento, mi sento sotterrato dalla forza di questa calamità. Il coronavirus è veramente una calamità, che ci consegna una serie di domande scomode. Questo è un virus che colpisce la nostra capacità di respirare …

 

E obbliga i governi e gli ospedali a decidere chi continuerà a respirare.

 

Sì, La questione è trovare un modo di garantire che tutti abbiano mmodo di respirare. Questa dovrebbe essere la nostra priorità politica. Mi sembra, inoltre, che la nostra paura d’isolamento, della quarantena, abbia a che vedere con il nostro timore di confrontarci con la nostra stessa fine. Questa paura ha a che vedere con il nostro non essere più capaci di delegare la nostra morte ad altri.

 

L’isolamento ci dà, in una certa misura, un potere sulla morte?

 

Sì, un potere relativo. Possiamo scappare dalla morte, o rinviarla. Il contenimento della morte è il centro di queste politiche di confinamento. E’ un potere. Ma non un potere assoluto, perché dipende dalle altre persone.

 

Dipende quindi anche dall’isolarsi da parte delle altre persone?

 

Sì. Un'altra cosa è che molte delle persone morte finora non hanno avuto il tempo di accomiatarsi. Molte di queste sono state cremate o interrate immediatamente, senza perdere tempo. Come se fossero spazzatura di cui dobbiamo liberarci il più rapidamente possibile. Questa logica dello scartare capita esattamente in un momento in cui abbiamo bisogno, almento teoricamente, della nostra comunità. E non esiste comunità senza poter dire addio a quelli che se ne sono andati, organizzare un funerale. La domanda è: come si crea, si alimenta la comunità in tempo di calamità?

 

Quali conseguenze lascierà la pademia nella società?

 

Cambierà il modo con cui ci confrontiamo con il nostro corpo. Il nostro corpo è diventato una minaccia per noi stessi. La seconda conseguenza è la trasformazione del modo come pnsiamo al futuro, la nostra coscienza del tempo. All’improvviso, non sappiamo come sarà domani.

 

Il nostro corpo è anche una minaccia per gli altri, se non restiamo in casa.

 

Sì, adesso tutti abbiamo il potere di uccidere. Il potere di uccidere è stato totalmente democratizzato. L’isolamento è esattamente un modo di rgolare questo potere.

 

L’altro dibattito che evoca la necropolitica è la questione riguardo quale dovrebbe essere la priorità politica in questo momento, salvare l’economia o salvare la popolazione. Il governo brasiliano ha indicato di dare priorità al salvataggio dell’economia.

 

Questa è la logica del sacrificio che da sempre sta al cuore del neoliberismo, e che dovremmo chiamare necroliberismo. Questo sistema opera da sempre come un dispositivo di calcolo. L’idea che alcuni valgono più di altri. Chi non ha valore può essere scartato. Il problema è cosa facciamo con quelli che decidiamo non aver valore. Questa domanda, chiaramente, incide sempre sulle stesse “razze”, le stesse classi sociali, e gli stessi generi.

 

Come nell’epidemia dell’HIV, quando i governi ritardarono ad agire perché le vittime erano ai margini: neri, omosessuali, tossicodipendenti?

 

In teoria, il coronavirus può uccidere il mondo intero. Tutti sono minacciati. Ma una cosa è essere confinati in un’area residenziale, in una seconda residenza in una zona rurale. Un’altra cosa è essere in prima linea, lavorare in un cetro sanitario senza maschera. Esiste una scala secondo la quale i rischi sono oggi distribuiti.

 

Alcuni presidenti si sono riferiti al coronavirus con la metafora della guerra. La scelta della parola conta, in questo momento? Lei scrisse che la guerra è una chiara pratica di necropolitica.

 

C’è una difficoltà nel dare un nome a ciò che sta accadendo nel mondo. Non è solo un virus. Non sapere cossa sta per arrivare è ciò che fa sì che Stati in ogni parte del mondo recuperano le antiche terminologie utilizzate nelle guerre. Inoltre, le persone si stanno ritirando dentro le frontiere dei propri Stati-nazione.

 

C’è un aumento del nazionalismo in questa pandemia?

 

Sì, le persone tornano allo “chez-soi”, come si dice in francese, al proprio ambito domestico. Come se morire lontano da casa fosse la cosa peggiore che podesse accadere. Le frontiere sono chiuse; non sto dicendo che dovrebbero essere aperte, ma i governi danno risposte nazionaliste a questa pandemia, attraverso questo immaginario della frontiera, del muro.

 

Dopo questa crisi, ritorneremo come eravamo prima?

 

La prossima volta, saremo colpiti in modo ancora più forte di quanto non lo siamo stati in questa pandemia. L’umanità è in pericolo. Ciò che questa pandemia sta rivelando, se la prendiamo seriamente, è che la nostra storia, qui, sulla terra, non è garantita.

Non c’è garanzia che staremo qui per sempre. Il fatto che è verosimile che la vita continui senza di noi è la questione chiave di questo secolo.

 

 

*ACHILLE MBEMBE, 62

Filosofo e scienziato politico camerunense, formatosi in Storia alla Sorbonne e in scienza politica all’Istituto di Studi Politici. A tenuto corsi nelle università Columbia, Yale e Duke; attualmente è professore all’università di Witwatersrand, a Johanesburg. Nel 2003 ha pubblicato Necropolitica, in cui discute come i governi scelgono chi vive e chi muore, o come si vivrà e come si morirà. 

 

L'intervista è stata pubblicata su A folha de São Paulo

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