Una buona opportunità?

Jacques Rancière su "n-1 Edições"

 

Il confinamento, ci dicono, costituisce un’opportunità unica per riflettere sulla società in cui viviamo, il disastro verso il quale ci conduce e i cambiamenti radicali che si devono operare al fine di evitarlo. Ciò nonostante, non è così evidente che il momento migliore per riflettere su di un fenomeno mondiale sia quello che ci vede isolati dal mondo, senza sapere quasi niente di ciò che accade nei luoghi in cui si tratta la malattia e dove si elaborano le decisioni riguardo la gestione dell’epidemia. In realtà le analisi che “scoppiettano” oggi ci erano già disponibili, erano completamente pronte.

 

E’ il caso delle teorie del biopotere e della società della vigilanza. Non sono nuove, ma sembra che stiano trovando una loro perfetta applicazione nel momento in cui il potere dello Statyo si dà come compito imporre le raccomandazioni dell’autorità medica, e i dispositivi atti al tracciamento dei portatori del virus rinnovano la grande paura dello Stato “Big Brother”, dotato adesso, per poter vigilare sui nostri corpi, di un’attrezzatura digitale.

Nel mentre, un occhio più attento rivela che la gestione della crisi da parte dei nostri Stati ha obbedito con difficoltà al paradigma di un controllo scientifico delle popolazioni. Potremmo iniziare parlando  di capi di Stato che non credono nella scienza, che trattano il cronavirus come un’influenza da niente, e che chiamano i propri cittadini alla ripresa immediata del lavoro. Ma anche dove il confinamento è stato imposto in modo rigido e controllato dallo Stato, ha rivelato una relazione ben specifica e molto limitata del potere dello Stato rispetto alle vite individuali. Imporre alle persone di restare in casa non è certo il modo migliore per vigilare su di esse in modo efficace.

 

In un certo senso, questa misura si limita a prolungare la pratica abituali dei nostri Stati sempre più autoritari, che consiste nel far pulire le strade dalla polizia, in modo che qualcosa si muova. La gestione della pandemia è stata fatta secondo questa logica di sicurezza che abbraccia tanto i conflitti sociali, quanto gli attentati terroristici o le catastrofi naturali. Non c’è dubbio che l’autorità della scienza medica ha pesato molto nelle decisioni governative. Ma non per l’ipotesi scientifica riguardo la circolazione del virus, quanto piuttosto per le semplici stime riguardo la capacità di accoglienza degli ospedali, capacità ridotta drasticamente dalle politiche di taglio ai fondi.

 

In altre parole, l’autorità scientifica è stata esercitata all’interno di questa logica secondo cui la prosesuzione delle politiche securitarie si coniuga con l’avanzamento delle misure cosiddette “liberali” di distruzione del sistema di protezione sociale. Avevo tentato di riassumere questa logica in un articolo pubblicano nella “Folha” nel 2003, in occasione dell’onda di calore micidiale che ci fu in Francia: nel momento in cui lo Stato faceva di meno per la nostra salute, stava decidendo di fare di più per la nostra vita. Lo Stato sostituiva i sistemi orizzontali di solidarietà attraverso una relazione diretta, ma allo stesso tempo astratta, tra ciascuno di noi e un potere statale incaricato di poteggerci in blocco contro l’insicurezza. E’ chiaro che questa protezione in blocco può essere accompagnata da una totale assenza di previsioni rigurado il dettaglio. E’ quello che si è verificato nella Francia del 2020: il governo non aveva previsto niente contro l’epidemia. Non aveva test disponibili e neppure mascherine sufficienti per tutti i medici, ragione pr cui l’autorità scientifica ha dovuto sostenere la menzogna dello Stato, mettendo in dubbio l’utilità delle mascherine.

 

Nel confinarci, il nostro governo gestisce meno “la vita”, sulla quale ha una visibilità modesta, di quanto le conseguenze della sua stessa mancanza di previsione. Ma questa incapacità previsionale non è un caso. Fa parte della stessa logica che sostiene il paradigma securitario e garantisce il potere ai nostri Stati.

 

Sarebbe necessario, quindi, relativizzare contemporaneamente le due idee forti diffuse in queste tempo di confinamento. Non è per niente comprovato che questo tempo abbia indotto il trionfo del biopotere e che ci abbia lanciato nell’era della dittatura digitale. Ma allo stesso tempo non è per niente sicuro che i nostri Stati e il sistema economico che gestiscono uscirà indebolito da questa dimostrazione d’impotenza si sta fornendo. Sarebbe necessario relativizzare, nella stessa misura, gli effetti radicali che alcuni si aspettano alla fine della situazione attuale. Penso a tutte le speculazioni in corso oggi riguardo il “momento del poi”, quando sarà messa in marcia la macchina economica attualmente dormiente. Questo momento del poi è diventato facilmente la grande nuova speranza: l’occasione sognata in cui si potrebbe realizzare, d’un colpo solo e senza violenza, il grande capovolgimento che in altri tempi ci si aspettava dalle giornate rivoluzionarie. E’ in questo poi, ci dicono, che sarà possibile cambiare tutto, farla finita con gli eccessi di un capitalismo che sacrifica le vite in nome dei guadagni. Ma sarà anche il momento per cambiare il “paradigma di civilizzazione”, ridefinire per intero i nostri modi di vita e ripensare radicalmente la nostra relazione con la natura.

 

Tali grandi progetti lasciano in sospeso una domanda: in questo momento chi fara tutto quello che è necessario per cambiare tutto? Gli stravolgimenti all’interno dell’ordine del dominio non si realizzano, perché qualunque altra circostanza eccezionale ha messo in evidenza le sue ferite. Neppure si realizzano quando pensatori que ragionano a lungo sulla storia del capitalismo o dell’antropocene forniscono buone ricette per “cambiare tutto”. Un futuro si costruisce solo nelle dinamiche del presente. Alla fine dell’epidemia, i nostri governi continueranno sulla base delle loro dinamiche abituali, quelle della macchina-mondo capitalista di cui gestiscono il funzionamento e le cui nefaste conseguenze collaterali tentano attenuare giorno per giorno.

 

Per quelli che non si rassegnano a un simile corso delle cose, il momento del poi corre il rischio di presentare lo stesso problema del momento del prima: quello delle forze capaci di unire la lotta contro le forze di sfruttamento e dominio all’invenzione di un altro futuro. Ma non è per niente ovvio che il confinamento ci abbia fatto fare dei passi avanti in questa direzione.

 

Pubblicato su n-1 Edições

Traduzione dal portoghese di Stefano Rota

 

 

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