Note per una ricerca attivista (o clinica) - terza parte

Stefano Rota

Riprendo ora il punto quattro[1] e provo a riformularlo sotto forma di quesiti. Il modo in cui si presenta ai nostri occhi (non più presbiti) il presente è interrogabile e quindi (problematicamente) interpretabile[2] a partire solo dalle condizioni in cui si presenta oggi, attraverso i discorsi con cui viene descritto l’oggi e il modo in cui il soggetto lo abita? O, forse, lo scavo sotto i nostri piedi, nelle stratificazioni di sapere, conoscenze e nei rapporti di potere, può aiutarci a comprendere la attualità dell’essere politico del soggetto, tramite una ricostruzione genealogica delle forme di rapporto tra “tecniche di dominio e tecniche del sé” che si sono succedute, ad esempio, nelle grandi fabbriche genovesi dagli anni Sessanta a oggi?

La mia risposta è senza esitazione: sì, è necessario. Non si tratta di ricostruire un percorso a partire da un’origine. La genealogia è l’opposto della ricerca dell’origine: cerca piuttosto le provenienze, le ripartenze, le emergenze, le linee di fuga a partire da punti di rottura. È una pratica molto utile, affascinante, un atto d’amore verso le tracce lasciate: “è la minuzia del sapere, [fatta] di ‘verità piccole e non appariscenti’” (Foucault, 1977, p. 29). Un mio amico, Lucio, che di quelle fabbriche genovesi degli anni ’60 e ’70 è un grande conoscitore, mi ha detto che, se dovesse descrivere cosa era la fabbrica in quegli anni, partirebbe dall’odore di grappa alla prugna, caffè e sigarette, dai volti, dalle frasi, che incontrava nel bar di piazza Massena a Cornigliano[3] gestito da due piemontesi alle sei del mattino, dove si fermavano gli operai prima di entrare alla SIAC. È ciò che intendo con atto d’amore verso le tracce lasciate.

 

Ricostruire genealogicamente la storia di quella soggettività significa ricostruire la storia di corpi: il corpo-città, il corpo-classe operaia, il corpo-fabbrica come luoghi di eventi, privi di qualunque forma di unità sostanziale e identitaria. Gli eventi danno origine a emergenze, sono “luoghi di scontro” interni e sulla superficie dei corpi, scaturiscono da rapporti di forze, modificano il ‘corpo-città-classe operaia-fabbrica’. Sono emergenze che hanno ripercussioni “nel sistema nervoso, nell'umore, nell'apparato digestivo” del corpo. “Cattiva respirazione, cattiva alimentazione, corpo debole e spossato di coloro i cui antenati hanno commesso errori” (Foucault, 1982, p. 36). Anche i fantasmi su questo avranno molto da dire, come ci insegna l’antropologa Stefania Consigliere.

Ci sono eventi che nel corso degli ultimi sessant’anni hanno segnato il tratto distintivo della costituzione e ricostituzione di quel corpo, la condizione di possibilità per un nuovo “lancio di dadi”. Certamente lo sono le ‘crisi’[4], includendo al proprio interno le crisi economico-finanziarie, le crisi ecologiche, le crisi pandemiche, le crisi dovute a elevata conflittualità sociale e politica, le crisi belliche: in una parola, la crisi del capitale, che si è susseguita ciclicamente dagli anni Sessanta a oggi. Ciò che le accomuna è la sequenza in cui sono inserite: costituzione di soggettività (affezione di sé) – aggancio a punti di resistenza e contropotere – crisi (momento della frattura) – ricomposizione delle forme di dominio del capitale sulle posizioni guadagnate nella crisi (tecniche di potere) – ricostituzione di soggettività – aggancio a nuovi punti di resistenza e contropotere (tecniche del sé).

Per ricostruire la soggettività del lavoratore, dello studente, della casalinga, del disoccupato, del piccolo imprenditore, del lavoratore autonomo nel periodo che va dalla crisi petrolifera del 1973 alla “crisi” della conflittualità sociale del 1977 potremmo usare le stesse variabili che useremmo per la crisi economico-finanziaria del 2008, o la attuale crisi pandemica del 2020 (quelle, ad esempio, elencate nella prima parte), ma otterremmo descrizioni molto diverse, probabilmente incompatibili tra loro dal punto di vista del discorso che le include, del significato che al suo interno ricoprono alcuni termini. Quello che serve è cogliere le nuove forme del discorso, il modo in cui al proprio interno quegli stessi termini si coniugano con i processi di veridizione, con il “valore di verità” che enunciano.

 

“L’analisi attenta del proprio presente presuppone un vero lavoro di «scavo sotto i propri piedi» per scoprire come si è costituito quell’universo di pensiero, di discorso e di cultura che è ancora il nostro” (Paltrinieri, 2017, p. 112).

In queste due righe è riassunto il senso che si vuole dare alla proposta di una sia pur superficiale ricostruzione genealogica del “noi”, o, per meglio dire, del rapporto “io/noi”, che conduce alla nostra attualità. Si tratta di far lavorare le variabili lungo gli strati che costituiscono le formazioni storiche del nostro sapere, coglierne la mutevolezza dei significati che hanno assunto, col fine di poter indagare il loro peso nel nostro presente.

Un numero anche limitato, ma ben ponderato, di testimonianze, storie, dialoghi, immagini, musiche, con personaggi individuati in base alle priorità che la ricerca attivista si dà, potrebbe consentire una valida base per una prima raccolta di tracce, linee, che, attraversando le diverse formazioni storiche, descrivono il percorso significante di una variabile e del modo in cui si intreccia con altre, o si scompone in altre più minuziose.

Potremmo giungere così alla ricostruzione di tratti importanti della nostra esistenza (la cura dei figli, la cura di sé, della famiglia, il senso del mutualismo, della solidarietà), del modo in cui si sono articolati nel passato e come vengono declinati oggi, alla luce delle trasformazioni intercorse. Si potrebbe definire una ricostruzione genealogica del corpo e dell’individuo che lo abita. Il corpo come elemento centrale, quindi, come ambito preferenziale per un’inchiesta che evidenzi gli “a priori storici”, i rapporti contingenti tra il vivente, le micropolitiche del potere, le forme del sapere. Il corpo che viene impresso e devastato dalla diversa composizione dei tempi che ne fanno la storia. Vi ci lasciano, quei tempi, delle tracce che segnano una cartografia multisensoriale, ripercorribile attraverso le narrazioni che ricompongono le visibilità, gli odori, i suoni, i godimenti e i dolori di vivi, morti e fantasmi [5].

Non si tratta di un obiettivo, ma di un passaggio obbligato, il passaggio (temporaneo, provvisorio) dal punto quattro al punto uno. La ricostruzione genealogica ci aiuta a rispondere alla domanda: perché fare ricerca, inchiesta oggi e a cosa ci serve.

 

Tempi supplementari

Fare inchiesta serve a passare dalla critica alla clinica, seguendo le suggestioni di Dubosc e degli altri autori che hanno compilato il volume Lessico della crisi e del possibile (2019). È il momento di porci nell’orizzonte epistemologico che la clinica ci offre. È il momento di porsi sul versante della micropolitica, vivere il “malessere che ci abita: aiutarci a entrare nel malessere e rimanerci lì insieme, per poter immaginare strategie collettive di fuga e di trasfigurazione”, scrive P. Preciado nella bella introduzione al libro di Rolnik. Siamo quotidianamente a contatto con il disagio, il senso d’impotenza, la rabbia, la sofferenza che produce malessere esistenziale, desiderio di rivalsa, ricerca del capro espiatorio, tra tutti coloro che non sono diventati e non diventeranno mai “imprenditori di se stessi”.

Dalla clinica può emergere una cartografia dei linguaggi, della cultura popolare (nonostante l’ambiguità che accompagna oggi questa definizione), delle pratiche di fuga quotidiana, delle “tecniche” di conservazione e valorizzazione della propria vita, per come ciascuno le possa intendere.

I lemmi, fuori dalla grammatica e dalla morsa significante/significato, possono trovare vita in espressioni che li trasformano in linguaggi multipli, corporei, vocali, visuali, producendo nuove connessioni tra di loro e con il reale con cui interagiscono. La sottrazione della capacità enunciativa all’egemonia del linguaggio per riconsegnarla alla presenza interattiva dei corpi in situazione, a quello che fanno vedere stando fermi o muovendosi, silenti o accompagnati da voci, è il modo migliore per ridare vita agli “organi del corpo”. Con queste premesse si possono sperimentare azioni che coinvolgano i ragazzi, le signore e gli anziani delle periferie della città o del centro minore in cui viviamo, non ponendo alcun limite alle possibilità interpretative dei lemmi, registrando e accarezzando ogni significato proposto, come base per successive elaborazioni di quegli stessi lemmi o di altri.

Perché questo diventi clinica, dobbiamo riscoprire il piacere dell’inchiesta, del go on theorizing di Stuart Hall, la ridefinizione costante dei concetti che usiamo. Le aule, i luoghi di lavoro, di assembramento, i luoghi per la “ricerca del rispetto” devono diventare il terreno in cui si misura la capacità di fare di ogni concetto, enunciato, atto, un momento esperienziale clinico, o schizoanalitico.

La clinica mantiene salda la relazione tra potenza del concetto ed essere, diviene un tratto distintivo del processo di soggettivazione dell’individuo. Consente, da un lato, il dispiegamento del concetto nell’illimitatezza, ne favorisce, dall’altro, la piega e la ripiega, dandogli spessore, creando strati, “piani”, lasciandolo aperto a rappresentazioni performative imprevedibili.

La clinica guarda l’imprevedibilità che sfugge alle “segmentazioni dure” delle contrapposizioni binarie, io-Altro, soggetto-oggetto, conscio-inconscio, reale-virtuale, attuale-passato, ecc. Vive nelle congiunzioni che “fanno filare, tra i segmenti, dei flussi di deterritorializzazione che […] costituiscono il divenire asimmetrico dei due segmenti, [rappresentandone] un terzo che giunge sempre da un altro luogo e altera la binarietà dei due” (Deleuze e Pernet, 2019, p. 125).

In questo senso, la clinica della crisi può recuperare molto di quanto si è perso negli ultimi decenni; può darci la misura esatta di dove siamo, di cosa abbiamo bisogno e del tragitto che dobbiamo seguire. I piani vanno tutti presi in considerazione, non ve ne sono di più o meno importanti, la posta in gioco è troppo alta per permetterci distrazioni.


 

Testi citati nelle tre parti

 

Alquati, R. (1993). Per fare conricerca. Padova: Calusca Edizioni.

Burawoy, M. (1, 2007). Per una sociologia pubblica. Sociologica, Il Mulino.

Butler, J. (2017). L'alleanza dei Corpi. Milano: Nottempo.

Chiesi, A. (2/2007). Le sociologie, il controllo delle loro affermazioni e loro degenerazioni. Sciologica, Il Mulino.

Consigliere, S. (2018, Ottobre 07). Le Rovine selvagge. Tratto da Kayak. A philosophical journey. Caldo/freddo. n.5: http://www.kaiak-pj.it/images/PDF/rivista/kaiak-5-caldo-freddo/le-rovine-selvagge.pdf

Dardot, P., & Laval, C. (2019). La Nuova ragione del mondo. Roma: DeriveApprodi.

Deleuze, G., & Claire , P. (2019). Conversazioni. Verona: Ombre Corte.

Dubosc, F. O., & AA.VV. (2019). Lessico della crisi e del possibile. Torino: SEB27.

Fanizza, F., & Omizzolo, M. (2018). Caporalato, an Authentic Agromafia. Milano: Mimesis International.

Foucault, M. (1971). L'Archeologia del Sapere. Milano: Rizzoli.

Foucault, M. (1982). Microfisica del potere. Torino: Einaudi.

Foucault, M. (1996, 2014). Follia e discorso - Archivio Foucault 1. Milano: Feltrinelli.

Foucault, M. (1997, 2017). Il filosofo militante - Archivio Foucault vol. 2. Milano: Feltrinelli.

Foucault, M. (1998, 2020). Estetica dell'esistenza, etica, politica. Archivio Foucault 3. Milano: Feltrinelli.

Foucault, M. (2017). Soggettività e Verità. Corso al Collège de France (1980-1981). Milano: Feltrinelli.

Hall, S. (2006). Politiche del Quotidiano. Milano: Il Saggiatore.

Iofrida, M., & Melegari, D. (2017). Foucault. Roma: Carocci.

Jullien, F. (2018). L'Identità culturale non esiste. Torino: Einaudi.

Macherey, P. (1998). In a Materialist Way. London-NY: Verso.

Mbembe, A. (2016). Necropolitica. Verona: Ombre Corte.

Merlin, N. (2020). Colonización de la subjetividad. Buenos Aires: Letra Viva.

Palumbo, M. (3, 2014). La qualità del sapere sociologico come capacità operativa. Sociologia Italiana – AIS Journal of Sociology, 109-128.

Polleri, M. (a. VII, n. 13-14, gen-dic 2018). Logica e pratica dell’inchiesta. Romano Alquati e Michel Foucault. Materiali foucaultiani, 289-303.

Rolnik, S. (2018). Esferas da Insurreição. São Paulo: N-1 Edições.

Santoro, M. (1/2007). Per una sociologia professionale e riflessiva (solo così anche pubblica). Sociologica.

Weber, M. (2014). Il metodo delle scienze storico-sociali. Torino: Einaudi.

 

 

 

 

 

 



[1] Dalla prima parte: bisogna procedere attraverso le stratificazioni (recenti, ovviamente), anche in modo molto sintetico, ma che ci consentano di capire di più e meglio cosa abbiamo davanti agli occhi. In altre parole, è importante capire le condizioni storiche che hanno condotto alla nostra attualità, facendo una mini-genealogia del soggetto.

[2]  L’interpretazione svolge un ruolo fondamentale nelle pratiche di ricerca e descrizione di fenomeni, segni e cose, producendo però alcune ambiguità. Se nel XVI secolo aveva come riferimento la somiglianza, è nel XIX secolo che, con Marx, Nietzsche e Freud, si determina “una nuova possibilità di interpretazione, [essi hanno] fondato da zero la possibilità di un’ermeneutica”. “Non c’è niente di assolutamente primario da interpretare […], tutto è già interpretazione […] Ogni segno [è] l’interpretazione di altri segni. […] L’interpretazione non mette in luce una materia da interpretare, [può solo] impadronirsi, violentemente, di un’interpretazione già esistente che deve rovesciare, capovolgere, fare a pezzi a martellate” (Foucault, 2014, pp. 142, 143).

[3] Quartiere del ponente genovese, dove iniziava la Genova delle grandi fabbriche e sede dell’ex-Italsider dalla seconda metà degli anni ’50.

[4] Il segno, sempre presente nella storia del capitale, che ne marca il suo procedere, il signum rememorativum (è sempre stato così), il signum demonstrativum (è così adesso) e il signum prognosticum (sarà sempre così) (Foucault, 2020, p. 257) è la crisi. Attorno ad essa - prima, durante e dopo, ma soprattutto prima, perché i punti di resistenza definiscono le rotture – compongono e ricompongono le soggettività. Per una descrizione esaustiva di come la crisi si collochi alla base del sistema neoliberale, costituendone il tratto costante degli ultimi cinquant’anni, si veda P. Dardot, C. Laval, La nuova ragione del mondo, DervieApprodi, Roma, 2019.

[5] Faccio riferimento all’affascinante lavoro svolto dall’antropologa Stefania Consigliere sulle presenze spettrali, riportando uno dei paragrafi finali del suo articolo Le Rovine selvagge (2018): “Ora che le mura della fortezza cominciano a creparsi, il momento è eccellente per fare la conoscenza degli spettri che imprigionava e dare loro, finalmente, ciò che è loro dovuto. Imparentato all’angelo della storia descritto da Benjamin, il fantasma rivela ciò che è stato nel passato e rimpiange quel che avrebbe potuto essere”. Una concezione di fantasma at large, quindi, al cui interno Stefania include “tutto ciò che una cultura rimuove dalla propria zona di conoscibilità e relega nel non dicibile, nelle cripte mentali e nell’abbandono, illudendosi così di non doverci più fare i conti” (pp. 15-16). Una trattazione del tema in forma più compiuta è contenuta in S. Consigliere, P. Bartolini, Strumenti di cattura: Per una critica dell’immaginario tecno-capitalista, Jaka Book, Milano, 2019, in particolare nella parte 12 “Haunting”.

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