La prova del Mediterraneo. A proposito di Camille Schmoll, “Les Damnées de la mer”*

Laura Odasso**

La notte di Natale del 1996, 283 dei 500 migranti che avevano lasciato le coste egiziane per raggiungere l'Europa persero la vita nel silenzio generale al largo di Siracusa, in Sicilia. Solo nel gennaio 1997 sono emersi frammenti di questa tragedia grazie alle parole dei sopravvissuti. Questo naufragio segnò l'inizio di una serie di traversate, riuscite e non, nel Mediterraneo centrale. Ai volti dei sopravvissuti di allora si sono aggiunti quelli di migliaia di altre persone che si sono avvicinati alle frontiere dell'Europa, sono riusciti a trovarvi il loro posto o stanno ancora vagando nella disperazione[1].

I media ci hanno offerto una lettura di questo fenomeno che mescola urgenza, spettacolarizzazione e compassione, e i politici hanno sfruttato la crescente visibilità degli esuli per accrescere l'ansia per l'invasione e la «grande sostituzione», raramente - con alcune eccezioni - scommettendo su una politica di accoglienza a lungo termine. E dagli anni '90, di pari passo con discutibili politiche europee e nazionali, le violenze sulla rotta migratoria sono peggiorate e l'approccio repressivo e securitario della gestione migratoria ha ristretto le possibilità derivanti dalla mobilità. I lavori di ricerca volti a dipanare con finezza queste dinamiche si sono moltiplicati.

Pur facendo parte di questa abbondante produzione accademica e arricchendosi dei suoi contributi, il libro di Camille Schmoll si differenzia da essa in quanto ci offre, attraverso l'analisi di otto anni di etnografia condotta a Malta e in Italia,[2] una storia delle sopravvissute. L’autrice invita a «femminilizzare lo sguardo» (p. 197) sulla migrazione in Europa e la sua gestione. In effetti, il libro fa luce sulla complessità delle motivazioni e dei vissuti che caratterizzano le partenze e le traiettorie migratorie - spesso in contrasto con le categorie previste dal diritto internazionale - delle «donne che trasgrediscono l'immobilità a cui sono state assegnate» (p. 189) e «attraversano il Mediterraneo» (pp. 187-188). In contrasto con l'immaginario delle donne che si ricongiungono con i loro mariti o che rimangono in villaggi svuotati degli uomini, le donne, di cui la geografa ci svelta il punto di vista[3], decidono di partire. Sono di diverse nazionalità (eritree, nigeriane, ecc.) e presentano situazioni amministrative e giuridiche diversificate. Tuttavia, quello che hanno in comune è che hanno superato «la prova del Mediterraneo» (p. 210), con le innumerevoli altre prove che costituiscono la «singolarità comune» (ibidem) dei loro percorsi.

 

Margini e frontiere

Un approccio politico dei «margini» ci permette di comprendere sia la pluralità sia l'universalità dell'esperienza di tali donne. Il concetto di margine «designa allo stesso tempo, e non sempre simultaneamente, fenomeni di periferia spaziale, marginalità sociale e politica, marcatura e trasgressione del confine» (p. 23). In effetti, è la chiusura delle frontiere europee ai migranti del Sud del mondo - attraverso una politica dei visti che non è mai stata messa in discussione - che alimenta le zone marginali. Esse non sono né realmente in Europa né al di fuori di essa (per esempio, gli hotspot[4]) o, al contrario, si trovano proprio nel cuore del vecchio continente (per esempio, i centri di accoglienza, gli accampamenti). Ma per le donne migranti che l'occhio della geografa segue nel tempo - prima fisicamente e poi attraverso i social networks - il margine diventa anche un marchio esistenziale. Prende la forma di micro-violenze quotidiane, che si aggiungono al continuum di violenza che le ha colpite lungo il tragitto e spesso già nei loro Paesi di origine (cfr. La vie de Julienne, pp. 33-56). La marginalità, che per queste donne si allunga nel tempo sospeso dell'attesa di uno status legale e di una casa, deriva dall'estensione degli effetti della frontiera sul continente. Infatti, le frontiere sono a monte e a valle del viaggio.

La scrittura accompagna il lettore attraverso tre momenti-spazi chiave di questi percorsi femminili in cui le frontiere si materializzano in vari modi: le traversate terrestri e marittime, l'arrivo in Europa e i luoghi di «accoglienza». Questi momenti sono le metonimie di altri momenti-spazi (il paese e la famiglia d'origine, il deserto, la Libia, ecc.) segnati da temporalità profonde e frammentate, e da emozioni e ricordi che accompagnano e, a volte, inseguono le donne durante i loro sforzi per sistemarsi. Infatti, l'attraversamento delle frontiere europee è solo un aspetto del percorso migratorio. La logica di filtraggio delle mobilità desiderate è tentacolare: è esternalizzata nei Paesi d'origine, presente nei Paesi di transito, ed eretta come emblema di una politica europea comune alle frontiere esterne dell'Unione.

Ma questa logica accompagna anche, in sordina, la vita quotidiana delle donne migranti molto tempo dopo il loro arrivo in Europa. Smistamento all'arrivo, procedure di identificazione, presentazione di una domanda di asilo, attesa, alloggi diversi, riconoscimento di protezione o rischio di rifiuto, irregolarità e procedure di espulsione, o movimenti secondari verso un Paese che non è il Paese d'ingresso, ritorno al Paese d'ingresso, ecc. Questi meccanismi burocratico-amministrativi ricordano alle esuli che non sono ancora arrivate. E ancora, l'accesso alle cure ginecologiche, le relazioni con il personale di accoglienza o, una volta ottenuto lo status amministrativo, il desiderio di riunire la famiglia, di trovare un lavoro e un alloggio adeguati fanno apparire nuovamente la frontiera e precarizzano, e perfino marginalizzano, costantemente queste donne. Tuttavia, Schmoll ipotizza che anche se hanno - o perché hanno - «vissuto la prova della frontiera a più riprese» (p. 220), queste sopravvissute sviluppano una certa intenzionalità di infiltrarsi nelle relazioni sociali asimmetriche che le screditano. È proprio delle loro «soggettività che emergono ai margini» (p. 25) che parla il libro.

 

Geografia politica dei corpi

L'intenzionalità delle donne deriva da una costante interazione con il dispositivo d’immigrazione. Se il viaggio nasconde violenze indicibili e biforcazioni inaspettate, l'arrivo segna l'ingresso in una dimensione dove il tempo si dilata e lo spazio si restringe. L'attesa dei passaggi amministrativi e dell'accesso ai servizi si rivela una «tecnologia dell’assoggettamento» (p. 134) che amplifica i controlli esternalizzati e le frontiere marittime. Vista da vicino, l’accoglienza funziona come un meccanismo per «plasmare le soggettività» (p. 130) delle esuli, ma anche delle donne che vi lavorano. La gestione della vita nei centri, ciò che è permesso e ciò che è vietato, la convivenza, le relazioni gerarchiche, la noia, l'ozio e l'ingiunzione di essere attivi modellano le rappresentazioni reciproche delle ospiti, e influenzano, o addirittura costringono, la capacità d'azione delle donne migranti. Disegnando «paesaggi morali dell’attesa» (p. 134) che funzionano come degli strumenti analitici, degli idealtipi, la geografa presenta le varie situazioni in cui il dispositivo di accoglienza determina i contorni del legale e dell'illegale, del lecito e dell’illecito, e quindi della migrante «buona» e di quella «cattiva».

Questi paesaggi si trovano all'incrocio tra il lavoro di costruzione dei confini di genere e il lavoro di frontierizzazione, cioè la ridefinizione spaziale e sociale dei confini attraverso un’«intensa attività di delimitazione e gerarchizzazione» (p. 135) effettuata, dall'alto, dalle politiche e dal diritto e, dal basso, dagli attori incaricati dell'accoglienza e delle formalità socio-amministrative (p. 136). Infatti, l'accesso alla protezione, al soggiorno e ai servizi di cui le donne hanno bisogno è condizionato dalle decisioni - raramente neutrali - degli intermediari che incontrano.

Si instaura un gioco di giudizio e di sospetto, di vulnerabilità e di vittimizzazione, un gioco culturalista, normalizzato e segnato da pregiudizi di genere e sessuali, perfino dalla paura di un uso improprio del servizio offerto. Questi paesaggi morali rimandano costantemente gli attori coinvolti alle loro posizioni asimmetriche, alle loro caratteristiche - reali o presunte - di genere, ma anche di «razza», classe ed età. Il grado di libertà di cui godono le donne nei centri di accoglienza influenza la loro esperienza. Sono soggette alle regole e allo sguardo del personale di gestione dell'accoglienza, ma anche a quelli dei residenti vicini e, nei luoghi misti, degli esuli maschi.

Anche se questi luoghi di accoglienza sono teoricamente al sicuro da un mondo esterno pericoloso, in questi spazi, l'intimità di queste donne è sempre esposta e i tempi dei loro corpi e delle loro giornate sono scanditi dagli altri e dalle costrizioni del luogo (promiscuità, assenza di serrature alle porte, orari di sveglia imposti, ecc.) Questa «esposizione forzata» (extimisation forcée) (p. 148) va di pari passo con una politica dell'intimità che si riferisce alle scelte relative alla salute sessuale, alla cura dei bambini e alle relazioni interpersonali. Scelte che sono spesso scrutinate dagli altri, poiché queste donne si trovano in una posizione «ambivalente [...] al tempo stesso protetta e controllata». Tuttavia, a seconda della loro funzione e struttura, i luoghi dell’accoglienza sono emblematici degli attriti tra la disciplina imposta e le opportunità di «sperimentare nuove pratiche e un nuovo rapporto con sé stessi e con lo spazio nella migrazione» (p. 157).

 

Politica della vita che resiste[5]

Le «imprese di scoraggiamento e di immobilizzazione» (p. 82) delle organizzazioni internazionali, degli Stati e dei media non riescono a contenere le partenze. Anche se le spaventose difficoltà del viaggio sono ormai note, l'Europa è ancora un'isola di sicurezza. Così, le donne scelgono il loro destino in una «tensione tra la “mortificazione”, "trattamento disumano" [...] e "fortuna", "avventura" o "destino"» (p. 82). La strada con le sue insidie lascia tracce profonde nel corpo e nell'anima delle donne. Per loro, «squattrinate, violate, violentate, soprattutto - infamia suprema - quando aspettano bambini da questi stupri» (p. 82), un ritorno è inconcepibile.

Motivazioni, desideri, relazioni e (op)pressioni inquadrano l'intenzionalità dell'impresa migratoria. Per spiegare «l'intreccio di motivi e temporalità» (p. 89) e per mostrare come le soggettività di queste donne «sono costruite nella e dalla frontiera» (p. 165), Schmoll opta per una lettura diacronica dei loro percorsi attraverso il prisma dell’«autonomia in tensione» (p. 163). Questa nozione permette di identificare le contraddizioni causate dalla coesistenza della vulnerabilità intrinseca al processo migratorio e della speranza di una vita migliore. La tensione tra queste due dimensioni è presentata attraverso la descrizione dell'intreccio tra la volontà soggettiva di agire e gli effetti delle condizioni strutturali derivanti dal dispositivo d’immigrazione sulla vita quotidiana delle donne. Più specificamente, le tattiche e le strategie che attestano questa autonomia in tensione sono identificati su tre piani, quello del corpo, dello spazio domestico e dello spazio digitale. Così, attraverso il controllo del sistema biologico e riproduttivo, attraverso forme di resistenza corporale (come lo sciopero della fame) meno pubblicizzate di quelle dei compagni maschi, attraverso la micro-resistenza dell'intimo, la riappropriazione delle nicchie di «casa» o, ancora, la costituzione di uno spazio di bellezza, di performance positiva e di tessitura di relazioni online, le donne esiliate affermano una politica quotidiana della vita che resiste. Così, il margine non è solo un luogo di oppressione, ma anche di trasformazione per le esuli.

 

Scritto in un linguaggio per specialisti dell'immigrazione, abbastanza ben spiegato al lettore comune, il libro ci permette di situare i viaggi di queste donne, così particolari e forse ancora minoritari, nel quadro delle migrazioni internazionali verso l'Europa e far luce sull'interazione di attori (decisori politici, passeurs, agenti di frontiera su entrambe le sponde del Mediterraneo, organizzazioni internazionali, cooperative di accoglienza, ecc.) che li caratterizza. È vero che Schmoll specifica che ci offre la sua versione situata delle traiettorie delle dannate del mare, perché femminilizzare lo sguardo è, prima di tutto, saper ammettere che la relazione investigativa non è mai «innocente» (p. 31) e libera da rapporti di potere. Consapevole della sua posizione di ricercatrice bianca, europea, il cui percorso di vita differisce profondamente da quello delle sue interlocutrici, non cerca di parlare per loro, ma di far sentire la loro voce. Così facendo, sostiene una ri-politicizzazione della questione di genere nell'attuale svolta critica negli studi sulla migrazione (p. 190). In concreto, si tratta di fare spazio alle donne che sono state cancellate nel processo migratorio e, alla luce di questi percorsi femminili contro-intuitivi, mettere in discussione le politiche migratorie che selezionano le donne secondo principi spesso contraddittori di moralità, vulnerabilità e utilità, gerarchizzandole e determinando così la loro posizione futura nelle nostre società. Non sfuggirà al lettore che il titolo del libro rinvia a I Dannati della terra di Frantz Fanon, e suggerisce la necessità di una prospettiva trasversale nello sguardo alle migrazioni femminili nel Mediterraneo e al modo in cui sono trattate.

 

Per andare oltre:

 

- Agier Michel, Gérer les indésirablesDes camps de réfugiés au gouvernement humanitaire, Parigi, Flammarion, 2008.

- Akoka Karen, L’asile et l’exil. Une histoire de la distinction réfugiés/migrants, Parigi, La Découverte, 2020.

- Di Cesare Donatella, Crimini contro l'ospitalità. Vita e violenza nei centri per gli stranieri, Genova, Il Melograno, 2014.

- Fogel Frédérique, Parenté sans papiers, Paris, Éditions Dépaysage, 2019.

- Heaven Crawley, "Gender, "Refugee Women" and the Politics of Protection", in Claudia Mora e Nicola Piper (eds.), The Palgrave Handbook of Gender and Migration, Cham, Palgrave MacMillan, 2021, pp. 359-372.

- Laacher Smain, De la violence à la persécution, femmes sur la route de l'exil, Parigi, La Disputa, 2010.

 


[1] A cui bisogna aggiungere gli oltre 30.000 migranti morti in mare dalla fine degli anni '80. Cfr. la mappa delle persone che sono morte nella migrazione nelle vicinanze dell'Europa, Les damn.e.és de la mer 1993-2018 -- https://nlambert.gitpages.huma-num.fr/observable/missingmigrants.html

[2] L'indagine è stata realizzata tra il 2010 e il 2018 osservando centri di accoglienza per famiglie e donne sole, centri di detenzione per donne e altri centri minori, raccogliendo circa 80 testimonianze di donne, alcune delle quali sono state seguite nel tempo attraverso le reti, e raccogliendo interviste con i responsabili di centri di accoglienza, attivisti, ecc. (vedi appendice metodologica, p. 205-206).

[3] Aderendo all'approccio femminista della standpoint theory (cfr. per esempio il lavoro pionieristico di Sandra Harding, Dorothy Smith e Patricia Hill Collins).

[4] Si tratta di centri di smistamento e registrazione dei migranti istituiti in Grecia e in Italia dal Consiglio straordinario dei ministri dell'Interno dell'Unione europea il 14 settembre 2015 per distinguere tra i migranti che rientrano nello status di rifugiato e possono aspirare a qualche forma di protezione internazionale e quindi potranno proseguire nel loro cammino, e quelli che saranno potenzialmente rimandati al loro Paese d'origine. Questi centri, dove sono concentrate diverse agenzie europee (per esempio Frontex; Europol, ecc.), serviranno a migliorare il controllo delle frontiere esterne dell'Unione.

[5] Come Schmoll, prendo in prestito questa espressione da Michel Agier.

 

Traduzione dal francese di Piera Pepe 

 

Originariamente pubblicato in francese sulla rivista online La Vie des Idées , Collège de France, Paris.

Cfr. Laura Odasso, « Les survivantes », La Vie des idées, 15 mars 2021. ISSN : 2105-3030. URL : https://laviedesidees.fr/Camille-Schmoll-Les-damnees-de-la-mer.html 

 

** Ricercatrice presso la Chaire Migrations et Sociétés del Collège de France (Parigi), membro del French Collaborative Institute on Migration, Parigi, Campus Condorcet, e associata all'Università di Aix-Marseille, Laboratoire Méditerranéen de Sociologie (CNRS, LAMES), Aix-en-Provence (Francia). Co-webmaster del Research Committee on Language and Society, RC 25 dell'International Sociological Association.

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