Green pass, "libertà" e produzione del vero

Ho trovato piuttosto sconsolanti le parole di Agamben e Cacciari, i quali, dall’alto del loro nome, hanno liquidato con poche righe, semplificandolo fino alla banalizzazione, un problema che, al contrario, credo meriti molto più spazio. Senza pretendere di interloquire con due del loro calibro, ci mancherebbe, provo a mettere qui in un numero di righe decisamente maggiore di quelle da loro consegnate agli annali della storia del pensiero filosofico mondiale alcune riflessioni, in forma assolutamente provvisoria e totalmente incompleta, su quello che è divenuto l’argomento centrale nel dibattito giornalistico, culturale, politico, sociologico e filosofico di questi giorni: vaccini e green pass.

 

Non mi soffermo più di tanto sullo sterile dibattito attorno le libertà perduta o a rischio, limitandomi a porre alcune domande prima di tutto a me stesso, mentre mi tornano in mente le parole di Gaber su cosa sia la libertà: quand'è stata l'ultima volta che mi sono sentito libero, quindi tra liberi? Da cosa? Rispetto a chi? Di quanta parte della mia vita sono effettivamente in grado di dire che gestisco sulla base di miei principi etici, di un agire orientato ai “valori ultimi”, direbbe Weber? Do una mia risposta: l’ultima volta che ho avuto questa percezione di me è stato quando ho partecipato all’ultima manifestazione in piazza, per l’ambiente, per i diritti dei lavoratori dell’ex-Ilva, contro un presidio fascista, contro le discriminazioni razziste, per il diritto ad amare, non importa per cosa fosse, perché mi sentivo, in quel momento, tra liberi. Lì ho assaporato il gusto dolceamaro ed effimero della libertà, certo non quando mi hanno concesso di ritornare in piscina, o di andare in una trattoria, o di fare un viaggio; neppure quando mi hanno lasciato la scelta se vaccinarmi o meno. La differenza sta nel rapporto io-noi. Fermo qui subito questa non certo approfondita e neppure molto originale riflessione sulla mia idea di libertà, dando quindi per scontato che la percezione che ho di me in quanto libero tra liberi è decisamente molto limitata e circoscritta a eventi. In altre parole, non c’è una libertà da riacquisire, ma una libertà da conquistare col e da manifestare nel contrasto allo stato di cose presenti in tutte le forme che si ritengono opportune.

 

Passo invece a quello sulla biopolitica, che mi interessa molto di più. Da circa tre secoli politica e bios si sono intrecciate senza sosta, medicalizzando la politica e politicizzando la medicina, la psicanalisi, la psichiatria, sempre più chiamate a entrare in modo determinante nel sistema giuridico, amministrativo, sociale ed economico; un intreccio che ha trovato in scienze nuove, quali la biologia, la statistica e l’economia politica, una solida base di sapere. Il biopotere (le tecnologie del potere che definiscono i rapporti tra varie forme di sapere e la vita degli individui e della popolazione) ha definito in modo preciso questa articolazione, attraverso la produzione costante di processi di veridizione, che stanno alla base della costituzione della soggettività: ciò che è "vero" è, nel momento in cui lo riconosco o lo misconosco, ciò che mi definisce; il “vero” definisce la "realtà", ma, diceva Mark Fisher, questa è cosa ben diversa dal Reale. Ogni cosa che viene ripetuta, ribadita, sostenuta da forme di sapere accettate e consolidate è la realtà, corrisponde a ciò che è vero, definisce un “ordine del discorso” che corrisponde alle caratteristiche di sapere e potere di ogni epoca. Viene enunciata con il si impersonale (si dice, si sostiene, ecc.).

 

Due brevi passaggi della lezione del 18 marzo 1981 di Foucault al Collége de France del corso “Soggettività e verità” descrivono in modo eccezionale questo rapporto: “Che una certa proposizione sia vera, lo si può determinare stabilendo che le cose stanno come le stabilisce la proposizione. Ma non è perché le cose stanno così che il discorso in cui si trova la proposizione esisterà come reale”. Da qui lo stupore epistemico che chiede: “perché oltre al reale, c’è il vero? Che cos’è questo supplemento che il reale in sé non può mai spiegare del tutto, per cui il vero agisce sulla superficie del reale, all’interno e fin nella profondità del reale, che non corrisponde a una logica o necessità interna al reale? La realtà della cosa vera non è mai la ragione del fatto che la verità di questa cosa viene detta all’interno di un discorso di verità, attraverso un gioco vero/falso, di veridizione, che va ad aggiungersi al reale e lo muta, lo trasforma”.

 

Questo vero ha una caratteristica fondamentale: deve essere tale per l’individuo e per la popolazione. “La droga fa male” (si dice!) sia all’individuo, sia alla popolazione, ma il male per quest’ultima non corrisponde semplicemente alla somma del male che fa a ogni individuo: alla popolazione fa un altro tipo di male, un male che affetta la vita economica, pubblica, sanitaria, politica di una popolazione, in quanto rappresenta un costo sociale, un danno sociale, una perdita di “capitale umano”. La protezione della vita (l’investimento sulla vita) e l’eventualità della morte trasformano in modo irreversibile il gioco tra vita e morte: non più “fai morire e lascia vivere” del potere sovrano, che poteva, e in molti casi doveva, dare la morte, ma “fai vivere e lascia morire” del potere disciplinare e del controllo. Questo cambiamento è avvenuto tra il XVII e il XVIII secolo e ha avuto nell’epidemia di peste il proprio campo di intervento diretto, pratico, razionale. Un punto di non ritorno.

 

Altri due passaggi, estrapolati questa volta da “Sorvegliare e punire” di Foucault, del capitolo 3 dedicato al panoptismo, su questo tema: “Alla peste risponde l'ordine: la sua funzione è di risolvere tutte le confusioni: quella della malattia, che si trasmette quando i corpi si mescolano; quella del male che si moltiplica quando la paura e la morte cancellano gli interdetti. Esso prescrive a ciascuno il suo posto, a ciascuno il suo corpo, a ciascuno la sua malattia e la sua morte, a ciascuno il suo bene per effetto di un potere onnipresente e onnisciente che si suddivide, lui stesso, in modo regolare e ininterrotto fino alla determinazione finale dell'individuo, di ciò che lo caratterizza, di ciò che gli appartiene, di ciò che gli accade”. Ancora: “ci fu anche un sogno politico della peste […], le divisioni rigorose; non le leggi trasgredite, ma la penetrazione, fin dentro ai più sottili dettagli della esistenza, del regolamento - e intermediario era una gerarchia completa garante del funzionamento capillare del potere; non le maschere messe e tolte, ma l'assegnazione a ciascuno del suo «vero» nome, del suo «vero» posto, del suo «vero» corpo, della sua «vera» malattia”.

 

Mentre scrivo queste note mi trovo a domandarmi: “Quindi? Le manifestazioni di questi giorni hanno a che fare con questi elementi che ho provato a descrivere? Ha ragione un intellettuale del calibro di Ugo Mattei a prendervi parte?” Difficile dare una risposta, che non sia “no, quelle piazze esprimono un’idea di libertà che è individualista, opportunista, addirittura oscurantista (contro il si degli enunciati scientifici). Un’idea di libertà che si basa su ‘faccio come mi pare e come mi conviene’, tipica dell’ideologia del neoliberalismo”. Ed è almeno in buona parte così, ma non basta, soprattutto non serve. Non basta perché in quelle piazze si manifesta qualcosa che viene sistematicamente messo in secondo piano nel discorso mainstream: L’opposizione al green pass non si sovrappone perfettamente al no vax: molte persone intervistate dichiarano di essere lì pur senza essere aprioristicamente contrarie al vaccino, sono lì perché non accettano l’uso del green pass – e certamente gli abusi che se ne potranno fare: sarà impossibile che in una qualunque agenzia per il lavoro di somministrazione e interinale, in barba alla Costituzione, non vengano discriminati i non possessori del green pass, di cui sarebbe certo non impossibile verificarne il possesso, pur senza chiederlo? Lo stesso si potrebbe dire per la stipulazione di un contratto assicurativo, o altri ambiti in cui c’è un “investimento” – che si suppone venga usato come strumento prescrittivo (lasciamo perdere i paragoni con i gulag e altre amenità di questo tipo, per favore!) per la scansione dei modi e tempi di vita a prescindere dalle condizioni soggettive dell’individuo, del proprio stile di vita abituale, di “quadrettatura” differenziale degli spazi urbani e della popolazione. Certamente sono una minoranza, soprattutto in alcune piazze, ma il problema che sollevano non è marginale, mi sembra.

 

Ma oltre a non bastare, ho l’impressione che quella valutazione non serva a molto. Non serve perché interrogando così il problema lasciamo da parte un aspetto assolutamente centrale, che trova nel modello che si fa strada in questa pandemia, mi sembra, una chiara manifestazione. Mi riferisco al mutamento in corso nell’Occidente (con ancora una volta gli USA come capofila), che segue quella che viene ormai riconosciuta da molti se non da tutti come la crisi del neoliberalismo. Ed è su questo piano che vanno preparate le armi della proposta politica, della “clinica” oltre la critica.

 

Su questo cambiamento ha scritto un articolo molto convincente Paolo Gerbaudo, in cui sostiene la ormai conclamata crisi del modello statale neoliberalista (parlando di modello statale, uso il termine neoliberalista, al posto di neoliberista), a cui fa da contraltare l’imporsi di uno stato neo-interventista. I punti di riferimento, più che nel passato, sembrano trovarsi nel turbo-capitalismo di stato cinese, al netto delle tutt’altro che irrilevanti differenze tra uno stato che si è innestato sui principi del taoismo e confucianesimo di rapporto tra individuo, collettivo, dovere, stato, potere, benessere, da un lato, come ci insegna da qualche decennio François Jullien, e un modello di stato ritagliato sulle teorie dei Chicago Boys, dall’altro.

 

È all’interno di questa cornice che mi sembra vada letta tutta la strategia anti-pandemica e di ripresa, in cui il green pass è un passaggio importante, niente affatto simbolico, con lo Stato che, previa approvazione dell’entità sovrannazionale che quella strategia finanzia e controlla, definisce le regole e dà le carte della ripresa economica: quale modello di amministrazione pubblica e per quale sviluppo, cosa accelerare e come, a cosa dare la priorità e con quali risorse, quali disuguaglianze smussare e quali mantenere. Non si tratta certo di una novità assoluta, ma è indubbio che un cambiamento di una certa importanza sia in corso. Le nuove frontiere del green non verranno lasciate aperte come praterie a cavalcate a briglie sciolte; lo sviluppo dell’ITS e STEM, quindi il puntare sullo sviluppo di competenze forti in ambito tecnologico e scientifico (ben evidenziate nel PNRR), sarà governato a livello centrale e regionale con i partner che sono in grado di produrre una potenza di fuoco di altissimo livello (la Regione Liguria ha già iniziato a discutere su questo con la Leonardo, società che ha il MEF come socio di maggioranza e una dei big a livello mondiale di difesa, aerospazio e cybersecurity).

 

 

Ben vengano quindi le discussioni su questo strumento, a patto che siano contestualizzate e senza strizzare l’occhio neppure un attimo alle richieste di “libertà” che provengono da quelle piazze e ai simboli deliranti che espongono (Ugo Mattei, intervistato sulla sua partecipazione a Torino, sposta l’attenzione, invece, sull’importanza della questione “costituente come contropotere”). Parlano di una libertà che sta totalmente dentro le logiche del neoliberalismo che non ci sono mai appartenute, a cui abbiamo sempre contrapposto un valore alto di libertà, che domani dovremo essere pronti a ribadire con la stessa convinzione, ma anche con la consapevolezza che usciamo da quarant’anni di sconfitte, da una guerra, come ha ricordato Warren Buffet, che hanno vinta loro, l’1%. Per fare questo, abbiamo bisogno di tempo per fare ricerca, comprendere, riflettere, produrre, vivendo il più possibile da liberi tra liberi. 

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