Retrocronie: Mosca 1937

 

Agostino Petrillo*

Cosa rimane delle infinite giornate perdute del passato? E' possibile restituire anche solo parzialmente il sapore di una determinata epoca? La questione è antica almeno quanto il lavoro dello storico.  L'ha nuovamente affrontata  lo studioso tedesco Karl Schloegel, in un suo libro di qualche anno fa, Terror und Traum. Moskau 1937,  tradotto in italiano con il curioso e forse non del tutto fedele titolo di L'utopia e il terrore. Mosca 1937. Nel cuore della Russia di Stalin (Rizzoli, Milano 2017).

 Schloegel mette indietro le lancette dell'orologio fino al 1937, e cerca di dare l'idea degli eventi di quell'anno drammatico, che segna l'apice del terrore staliniano. Fautore della total history, che utilizza per le sue ricostruzioni anche oggetti in apparenza insignificanti, cercando di rimettere insieme dal punto di vista storiografico “tutto ciò che nella storia e nell'esperienza sarebbe stato unito” e invece ha finito per ritrovarsi separato dalla settorialità del lavoro dello storico, dalla sua suddivisione in diversi ambiti di competenza, egli cerca di studiare gli eventi nel luogo e nel modo in cui si sono verificati. In pratica tornano le classiche unità di tempo luogo e azione caratteristiche del teatro. Una storia sincronica in cui gli eventi sono sempre legati ai luoghi e si cerca di leggere “il tempo nello spazio”. Così nella ricostruzione di questo anno moscovita l'autore impiega materiali quanto mai eterogenei: decreti ufficiali, diari privati e dissigillati dagli archivi, articoli di giornale, vecchie carte topografiche, stradari.

 

La Mosca del 1937 non è solo la città in cui si celebrano gli ultimi processi-farsa delle purghe staliniane, ma è anche un enorme cantiere, una città che viene in buona parte  distrutta e ricostruita, in cui la composizione sociale si trasforma sostanzialmente con arrivi dalle campagne di giovani rampanti, pronti  a riempire le fila di una società in cui le esecuzioni e le deportazioni di massa aprono vere e proprie voragini.

Ma lo stalinismo non ha un vero e proprio “progetto politico”, non c'è traccia della  “utopia” cui in maniera un po' improvvida allude il titolo italiano. L'attivismo e la potenza distruttiva del potere staliniano  vengono dispiegati a partire da un “misto di emergenza e di improvvisazione”. Nonostante le apparenze che lo vorrebbero espressione di una schiacciante volontà dittatoriale, e la leggenda storiografica che lo circonda, il potere stalinano appare in queste pagine come un potere sostanzialmente debole, il  cui vero progetto  è sopravvivere, autoperpetuarsi dando l'illusione di fare, nella infinita e quotidiana ripetizione degli slogan sulla “costruzione del socialismo”. E' una realtà che invece procede alla giornata, che tira a campare.  Ma il 1937 è un terreno scivoloso in cui non è facile muoversi. Difficile per lo storico seguire percorsi biografici in un universo violento in cui repentinamente buona parte degli attori principali vengono spazzati via dal palco per essere sostituiti da altri, destinati anche essi a sparire rapidamente.

 

“Non è possibile...non è possibile” ripete significativamente uno dei personaggi del Maestro e Margherita di Bulgakov, terminato appunto nell'Ottobre 1937. Mentre la vecchia guardia bolscevica sparisce fucilata in periferia, al poligono di  Butovo, dove si eliminano i “nemici del popolo”,  parte il piano per la ricostruzione di Mosca. Dall'epoca della rivoluzione non si era fatto quasi niente in città, ma ora diviene imperativo mettervi mano. La popolazione cresce come conseguenza della industrializzazione forzata. Il “fordismo” sovietico ha bisogno di una ristrutturazione energica della città sotto il profilo dei trasporti, delle residenze, delle infrastrutture.

 

L'immigrazione di massa dalle campagne cambia profondamente il profilo della vita urbana, produce tutta una serie di parvenus politici, di piccoli carrieristi di provincia che si trovano di colpo calamitati nella metropoli e  di cui è rimasta traccia nei personaggi dei romanzi dell'epoca. Al tempo stesso Mosca si affolla, si congestiona  e crea una sorta di “iperurbanizzazione” di sapore quasi terzomondiale, con baraccopoli alla sua periferia estrema. Il piano generale cerca un compromesso tra conservazione e rinnovamento urbano, ma con le sue scelte di gigantismo classicheggiante pone fine anche alle sperimentazioni delle  avanguardie architettoniche e degli urbanisti radicali. Il tentativo, che riesce solo parzialmente, è quello di dare ordine a una città che altrimenti cresce in maniera spontanea e irregolare. E in questo Mosca è l'immagine di una società altrettanto in modificazione, con altri contadini che arrivano dalle campagne per lavorare nei cantieri e si stanzializzano. L'aggressione al vecchio assetto della città non è allora unicamente dettato dalla necessità di una razionalizzazione, ma anche dal desiderio di liquidare un pezzo importante di memoria collettiva. Fare una storia nuova del costruito che cancelli la memoria di quanto vi era prima. Così scompaiono tutta una serie di angoli celebri, di edifici e di monumenti della Mosca prerivoluzionaria.

 

Ma forse lo strumento più impressionante che testimonia quest'epoca caotica è il vecchio indirizzario di Mosca del 1936 in cui  lo storico è andato a cercare i nomi degli scomparsi, elaborando così una vera e propria topografia delle sparizioni. I cognomi cancellati dall'elenco dei condomini parlano chiaro. Non a caso il censimento mai pubblicato del 1937 fa emergere  un calo della popolazione di quasi 8 milioni di unità in Unione Sovietica. I dati non verranno mai pubblicati:occorre nascondere il disastro demografico. Era stata fatta fuori tutta una classe dirigente, erano stati annientati anche i membri della intellighenzija, tra cui i più illustri demografi e statistici sovietici. Si sparge il panico quando la cerchia dei fedelissimi  scopre che sono più gli “allontanati” dal partito che gli iscritti. All'inizio del 1939 solo 7 di coloro che erano stati  i 139 segretari locali del partito due anni prima sono ancora al loro posto. Il libro è una miniera di suggestioni, ma forse la sua maggior forza la trova quando ci restituisce immagini che rimangono nella mente come quella di Nikolaj Bucharin, che, ormai condannato, scrive quattro libri per 1600 pagine complessive nell'anno che gli rimane da vivere e che trascorre nei sotterranei della Lubianka. E' un mondo a tratti sorprendente: Stalin si fa portare regolarmente i fogli che Bucharin scrive a macchina nella sua cella e li chiosa annotandoli a penna...

 

 

Ma mentre tutto questo avviene, la città vive una sua vita apparentemente normale, se di notte i camion della CEKA portano via tutti coloro su cui gravi anche una minima ombra di sospetto, di giorno si svolgono parate, feste, la vita scorre, si celebra con spiegamento di mezzi il centenario di Puskin, costruendo l'improbabile immagine del “compagno Puskin”. Un testo suggestivo e potenzialmente interminabile, nato dalla selezione di una quantità di materiali  difficilmente immaginabile, che non mira a dare una nuova interpretazione dello stalinismo, quanto piuttosto ambisce a descrivere un peculiare momento storico. Un momento che è fotografato sub specie aeternitatis,  e che si rivela in queste pagine sostanzialmente come il frutto di un bottleneck, di un imbuto, di una drammatica strettoia creatasi tra una élite che si è consolidata al potere e una società nuova che prepotentemente emerge.

 

 

*Agostino Petrillo insegna   Sociologia Urbana presso il Politecnico di Milano. I suoi interessi di ricerca vertono  su:  metropoli, conflitti urbani, globalizzazione, immigrazione. E’ collaboratore di diverse riviste, tra cui Mondi Migranti, Filosofia Politica, Territorio, ha scritto per il quotidiano Il Manifesto. Tra i suoi  lavori:  Villaggi città megalopoli, Carocci, Roma 2006; Peripherein: pensare diversamente la periferia, FrancoAngeli Milano 2013; La periferia nuova. Disuguaglianza, spazi, città, FrancoAngeli, Milano 2018.

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