La biopolitica ai tempi del coronavirus

Daniele Lorenzini

In un articolo recente, Joshua Clover evidenzia, a ragione, la rapida comparsa di un nuovo insieme di “generi della quarantena” [1]. Non stupisce affatto che uno di questi si concentri sulla nozione di biopolitica coniata da Michel Foucault, chiedendosi se quel concetto sia ancora appropriato o meno a descrivere la situazione che stiamo vivendo. Ugualmente, non dovrebbe sorprendere che, in quasi tutti i contributi che fanno uso del concetto di biopolitica per trattare l’attuale pandemia di Covid-19, siano in fondo sempre le stesse idee, vaghe ed imprecise, ad essere menzionate, mentre altre intuizioni foucaultiane – senza dubbio di maggiore interesse – tendono ad essere sistematicamente ignorate. In questo contributo vorrei discutere due di queste intuizioni, per poi avanzare alcune osservazioni metodologiche sulla questione di cosa possa significare “rispondere” alla “crisi” attuale.

 

Il “ricatto” della biopolitica

Il primo aspetto che mi interessa trattare è il seguente: la nozione di biopolitica, per come Foucault l’ha sviluppata nel 1976, non era finalizzata a dimostrare quanto negativa o malvagia fosse quella forma “moderna” di potere[2]. Ovviamente, il punto non era neppure elogiarla. Definendo la nozione di biopolitica, mi sembra che Foucault voglia in primo luogo e principalmente farci percepire l’attraversamento storico di una soglia: quella che chiama la “soglia di modernità biologica” di una società[3]. La nostra società ha attraversato tale soglia quando i processi biologici che caratterizzano la vita degli esseri umani in quanto specie vivente divengono un elemento cruciale per la determinazione delle scelte e strategie politiche, un nuovo “problema” da affrontare da parte dei governi – e non solo in circostanze “eccezionali” (quella di un’epidemia, ad esempio), ma anche in condizioni “normali” (“S”, p. 210). Una condizione permanente, quindi, che definisce ciò che Foucault chiama la “statalizzazione del biologico” (“S”, p. 206). Volendo rimanere fedeli all’idea foucaultiana che il potere non è buono o cattivo in sé, ma è pur sempre pericoloso (se accettato ciecamente, senza metterlo in discussione), si potrebbe dire che questa trasformazione del paradigma governamentale, con i suoi aspetti positivi e negativi, corrisponde a un’estensione pericolosa dell’ambito di intervento dei meccanismi di potere. Non siamo più né soltanto, né principalmente governati come soggetti politico-giuridici, ma anche e innanzitutto come esseri viventi che formano, collettivamente, una massa globale – una “popolazione” – caratterizzata da un certo tasso di natalità, di mortalità, di morbilità, da un’aspettativa di vita media, ecc.

 

In “Che cos’è l’Illuminismo?”, Foucault spiega che intende rifiutare il “‘ricatto’ dell’Illuminismo” – ovvero l’idea che dobbiamo essere necessariamente “pro” o “contro” di esso – e suggerisce di considerare l’Illuminismo piuttosto come un evento storico che caratterizza ancora, quantomeno in una certa misura, ciò che siamo oggi [4]. Vorrei suggerire, in modo analogo, che sarebbe saggio da parte nostra rifiutare il “ricatto” della biopolitica: non dobbiamo essere necessariamente “pro” o “contro” di essa, ma considerarla come un evento storico che definisce ancora, per lo meno in parte, il modo in cui siamo governati, il modo in cui pensiamo alla politica e a noi stessi. Quando, sui giornali o sui social media, leggo di persone che si lamentano di altre che non rispettano le regole della quarantena, penso sempre a quanto sia sorprendente per me, al contrario, che così tanti di noi le abbiano rispettate e le rispettino ancora, anche quando il rischio di sanzioni, nella maggior parte delle situazioni, è piuttosto basso. Mi colpisce anche l’insieme di citazioni tratte da Sorvegliare e punire, in particolare dall’inizio del capitolo “Il Panoptismo”, che fa chiaramente eco alle nostre esperienze attuali di quarantena, in quanto descrive la disciplinarizzazione di una città e dei suoi abitanti durante un’epidemia di peste[5]. Se, tuttavia, prendiamo in considerazione solo le misure coercitive, l’essere confinati, controllati, bloccati a casa durante questi periodi eccezionali, corriamo il rischio di sottovalutare il fatto che il potere disciplinare e biopolitico funzioni principalmente in modo automatico, invisibile e ordinario – il che lo rende ancora più pericoloso proprio perché, abitualmente, non ci facciamo caso.

 

Piuttosto che preoccuparci della creazione di meccanismi di sorveglianza e di controllo indiscriminato all’interno di un nuovo “stato d’eccezione”, mi sembra sia più rilevante sottolineare che siamo già soggetti biopolitici docili e obbedienti. Il potere biopolitico non si esercita sulle nostre vite soltanto, per così dire, “dal di fuori”, ma è divenuto parte di ciò che siamo, della nostra forma storica di soggettività, per lo meno negli ultimi due secoli. Per questo motivo dubito che qualsivoglia strategia efficace di resistenza ai suoi aspetti più pericolosi possa prendere la forma di un rifiuto globale, seguendo la logica del “ricatto” della biopolitica. Le osservazioni di Foucault sull’“ontologia critica di noi stessi” [6] possono risultare oggi incredibilmente utili, nel momento in cui è proprio la costruzione del nostro essere che dovremmo essere pronti a mettere in discussione.

 

La (bio)politica della vulnerabilità differenziale

Il secondo punto che vorrei discutere – un punto cruciale, ma purtroppo raramente menzionato nei contributi che si rifanno alla nozione di biopolitica nel trattare l’attuale pandemia di Covid-19 – è il legame inestricabile che Foucault stabilisce tra biopotere e razzismo. In un articolo recente, Judith Butler osserva giustamente “la rapidità con cui la disuguaglianza radicale, il nazionalismo e lo sfruttamento capitalista trovano modi per riprodursi e rafforzarsi nelle zone pandemiche”[7]. È estremamente importante insistere su questo, specialmente quando altri pensatori, come Jean-Luc Nancy, hanno al contrario sostenuto che il Covid-19 “ci pone tutti su una base di uguaglianza, unendoci nella necessità di assumere una posizione comune”[8]. Ovviamente, l'uguaglianza di cui parla Nancy è solo quella dei ricchi e dei privilegiati: coloro che hanno la fortuna di avere un tetto sotto cui trascorrere la quarantena e che non hanno bisogno di lavorare o possono senza troppa difficoltà lavorare da casa, come ha giustamente osservato Bruno Latour[9]. E chi è ancora costretto ad andare a lavorare tutti i giorni perché non può lavorare da casa, né permettersi di perdere lo stipendio? E quelli che non hanno un tetto sulla la testa?

 

Nell’ultima lezione di “Bisogna difendere la società”, Foucault sostiene che il razzismo è “il modo in cui, nell’ambito di quella vita che il potere ha preso in gestione, è stato infine possibile introdurre una separazione, quella tra ciò che deve vivere e ciò che deve morire” (“S”, p. 220). In altre parole, con l’emergere della biopolitica, il razzismo diventa un modo per frammentare il continuum biologico – siamo tutti esseri viventi con più o meno gli stessi bisogni biologici – al fine di creare gerarchie tra differenti gruppi umani, e, di conseguenza, differenze più o meno radicali nel modo in cui questi ultimi sono esposti al rischio della malattia e della morte. L’esposizione differenziale degli esseri umani ai rischi sanitari e sociali è, secondo Foucault, un tratto saliente della governamentalità biopolitica. Il razzismo, in tutte le sue forme, è la “condizione di accettabilità” di tale esposizione differenziale delle vite, in una società in cui il potere è esercitato principalmente per proteggere la vita biologica della popolazione e incrementare la sua capacità produttiva (“S”, pp. 220–21). Bisognerebbe quindi evitare di ridurre la biopolitica alla famosa formula foucaultiana “far vivere e lasciar morire” (“S”, p. 207) [10]. La biopolitica non consiste nella netta contrapposizione tra la vita e la morte, ma va compresa in modo più coerente come sforzo di organizzare differenzialmente l’area “grigia” tra questi due poli. L’attuale governo delle migrazioni ne è un esempio eccellente, come mostra Martina Tazzioli parlando di “biopolitica per mezzo della mobilità” [11]. Come ci viene costantemente, e a volte tristemente, ricordato di questi tempi, la biopolitica è anche e soprattutto una questione di governo della mobilità – e dell’immobilità. La speranza è che questa esperienza, nuova per molti di noi, ci aiuterà a comprendere che la maggiore o minore “porosità” delle frontiere sulla base della cittadinanza, del colore e dell’estrazione sociale di coloro che cercano di attraversarle è una delle forme principali dell’esercizio del potere nel mondo contemporaneo.

In breve, la biopolitica è sempre una politica di vulnerabilità differenziale. Lungi dall’essere una politica volta ad eliminare le disuguaglianze sociali e razziali sulla base della nostra comune appartenenza alla stessa specie biologica, la biopolitica si fonda strutturalmente sulla costituzione di gerarchie nel valore delle vite, producendo e moltiplicando le vulnerabilità come mezzo per governare le persone. Forse dovremmo pensare a tutto questo la prossima volta che applaudiremo (giustamente) i “medical heroes” e i “care workers” che “combattono il coronavirus”[12], e chiederci se siano veramente gli unici a “prendersi cura” di noi. E i fattorini o i riders che ci consegnano quello che abbiamo ordinato online mentre restiamo al sicuro nella quarantena delle nostre case? E i cassieri e le cassiere dei supermercati e delle farmacie, gli autisti dei mezzi pubblici, i lavoratori delle fabbriche, gli agenti di polizia, e tutti gli altri lavoratori e lavoratrici (in gran parte a basso reddito) giudicati essenziali per il funzionamento della società? Non meritano anche loro – e non solamente in queste circostanze “eccezionali” – di essere considerati “care workers”? Il virus non ci rimanda a una base di uguaglianza. Al contrario, rivela palesemente le vulnerabilità differenziali e le disuguaglianze sociali su cui è basata la nostra società.

 

La grammatica politica della crisi

Il lavoro di Foucault sulla biopolitica è più complesso, ricco e interessante per noi oggi di quanto appaia negli scritti di coloro che, con troppa fretta, lo riducono a una serie di anatemi contro il confinamento disciplinare e la sorveglianza di massa, o di chi in modo del tutto fuorviante lo utilizza per parlare di stato d’eccezione e nuda vita [13]. Non intendo suggerire, tuttavia, che il concetto di biopolitica debba essere considerato come la chiave di volta in grado di rivelarci cosa stia accadendo e quale sia la “soluzione” ai nostri problemi – e questo non solo a causa delle “caratteristiche storicamente differenti dei fenomeni biopolitici” giustamente evidenziate da Roberto Esposito [14], ma per una più pregnante ragione metodologica. Il nostro pensiero politico è prigioniero della “grammatica della crisi” e della sua temporalità limitata, nella misura in cui le risposte critiche alla situazione attuale (o, se è per questo, praticamente a tutte le recenti “crisi” economiche, sociali e umanitarie) non sembrano in grado di andare al di là dell’immediato futuro[15]. Se sono d’accordo, quindi, con Latour che l’attuale crisi sanitaria dovrebbe indurci a prendere finalmente sul serio e a prepararci al cambiamento climatico [16], sono molto meno ottimista di lui: questo non accadrà senza la previa sostituzione della narrativa della “crisi” con uno sforzo critico e creativo di lungo periodo, che ci consenta di elaborare risposte multiple e malleabili alle cause strutturali delle nostre “crisi”. Elaborare risposte, piuttosto che cercare soluzioni, significa evitare strategie di problem-solving a breve termine, il cui unico scopo è quello di cambiare il meno possibile del nostro attuale modo di vivere, produrre, viaggiare, mangiare, ecc. Significa invece esplorare percorsi sociali e politici alternativi, nella speranza che si rivelino esperimenti con una durata temporale maggiore rispetto al tempo che separa questa “crisi” dalla prossima, e riconoscendo allo stesso tempo che si tratta di trasformazioni necessariamente lente, dato che non è possibile scrollarsi di dosso in un battito di ciglia la nostra forma storica di soggettività. Significa insomma scommettere sulla nostra capacità di costruire un futuro, non solo per noi stessi, ma anche per le generazioni a venire. E cominciare a farlo per davvero.  

 

Originariamente pubblicato online sul blog di Critical Inquiry, “In the Moment”, 2 Apr. 2020, https://critinq.wordpress.com/2020/04/02/biopolitics-in-the-time-of-coronavirus/

 

Daniele Lorenzini è Assistant Professor of Philosophy all’università di Warwick (Regno Unito), dove co-dirige il Centre for Research in Post-Kantian European Philosophy. Co-direttore di Foucault Studies, è autore di numerosi articoli, saggi e monografie, tra le quali La force du vrai. De Foucault à Austin (Le Bord de l’Eau, Lormont, 2017) e Éthique et politique de soi. Foucault, Hadot, Cavell et les techniques de l’ordinaire (Vrin, Paris, 2015).

 

 

 


[1] Joshua Clover, “The Rise and Fall of Biopolitics: A Response to Bruno Latour”, in “Posts from the Pandemic”, supplemento online a Critical Inquiry 47 (Winter 2021): S28.

[2] Cfr. Michel Foucault, La volontà di sapere, Feltrinelli, Milano, 1988, pp. 119–29 e “Bisogna difendere la società”, Feltrinelli, Milano, 2009, pp. 206–27 (da qui in poi abbreviato con “S”).

[3] Foucault, La volontà di sapere, p. 127.

[4] Foucault, “Che cos’è l’Illuminismo?”, in Estetica dell’esistenza, etica e politica. Archivio Foucault, Vol. 3, Feltrinelli, Milano, 2020, p. 226.

[5] Cfr. “Coronavirus and Philosophers”, European Journal of Psychoanalysis, www.journal-psychoanalysis.eu/coronavirus-and-philosophers/. Per l’analisi completa sviluppata da Foucault, cfr. Foucault, Sorvegliare e punire, Einaudi, Torino, 1993, pp. 213-218

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[6] Foucault, “Che cos’è l’Illuminismo?”, p. 229.

[7] Judith Butler, “Capitalism Has Its Limits”, Verso Books Blog, 30 Mar. 2020, www.versobooks.com/blogs/4603-capitalism-has-its-limits

[8] Jean-Luc Nancy, “Communovirus”, Verso Books Blog, 27 Mar. 2020, www.versobooks.com/blogs/4626-communovirus

[9] Bruno Latour, “Is This a Dress Rehearsal?”, in “Posts from the Pandemic”, pp. S25–27.

[10] Si veda anche Foucault, La volontà di sapere, pp. 122–25.

[11] Martina Tazzioli, The Making of Migration. Biopolitics of Mobility at Europe’s Borders, SAGE, London, 2019, p. 106. Nonostante sia stato poco notato, nel primo volume della Storia della sessualità, Foucault cita le migrazioni come una delle principali aree in cui funzionano i meccanismi del potere biopolitico; cfr. Foucault, La volontà di sapere, p. 124.

[12] William Booth, Karla Adam e Pamela Rolfe, “In Fight against Coronavirus, the World Gives Medical Heroes a Standing Ovation”, Washington Post, 26 Mar. 2020, www.washingtonpost.com/world/europe/clap-for-carers/2020/03/26/3d05eb9c-6f66-11ea-a156-0048b62cdb51_story.html; “Clap for Carers: UK in ‘Emotional’ Tribute to NHS and Care Workers”, BBC News, 27 Mar. 2020,  www.bbc.com/news/uk-52058013

[13] Si vedano i testi di Giorgio Agamben sul coronavirus in www.quodlibet.it/una-voce-giorgio-agamben, e, in risposta, Gordon Hull, “Why We Are Not Bare Life: What’s Wrong with Agamben’s Thoughts on Coronavirus”, New APPS: Art, Politics, Philosophy, Science, 23 Mar. 2020, www.newappsblog.com/2020/03/why-we-are-not-bare-life-whats-wrong-with-agambens-thoughts-on-coronavirus.html

[14] Roberto Esposito, “Curati a oltranza”, Antinomie, 28 Feb. 2020, antinomie.it/index.php/2020/02/28/curati-a-oltranza/

[15] Daniele Lorenzini e Martina Tazzioli, “Critique without Ontology: Genealogy, Collective Subjects, and the Deadlocks of Evidence”, Radical Philosophy 207 (Spring 2020): 27–39.

[16] Latour, “Is This a Dress Rehearsal?”, p. S25.

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