Recensione di: Stefano Rota (a cura di), La fabbrica del soggetto, Ilva 1958 - Amazon 2021, Sensibili alle foglie, Roma 2023
Agostino Petrillo
L’agile libro curato da Stefano Rota, sociologo e ricercatore indipendente, propone un percorso originale che si snoda intorno a due temi strettamente intrecciati: il lavoro e le sue trasformazioni, e le dimensioni del vivere, gli spazi e le realtà quotidiane che si disegnano intorno al mondo della produzione e dell’industria.
Il metodo scelto per questa indagine non è quello della tradizionale intervista sociologica, ma quello della conversazione libera, della chiacchierata amicale sul tema individuato. Coloro che parlano e raccontano non sono “testimoni privilegiati” come vorrebbe la tradizione accademica, ma voci raccolte sulla base di contatti personali, a volte anche a partire da incontri occasionali e fortuiti che avvengono nei territori sempre più abbandonati della periferia genovese.
Da questa insolita maniera di procedere scaturiscono conversazioni ricche ed estremamente parlanti, che abbracciano da scorci di ricordi della vita in fabbrica fino a “istantanee” di vita domestica, tranches de vie appartenenti a esistenze private, disegnano luoghi atmosfere e ambienti, e spaziano dai mondi produttivi degli anni Sessanta, dalla stagione dell’operaio massa, fino a un’attualità segnata dalla frammentazione e della precarizzazione del lavoro.
Tra una passeggiata e un baretto si intrecciano chiacchierate che dicono molto delle metamorfosi intervenute nei processi lavorativi e parlano dello scarto tra le diverse epoche molto meglio di quanto non facciano a volte le letture in chiave storico-sociologica di questi passaggi o quelle più rigidamente “fabbrichiste”. Così impariamo dalle vive voci dei protagonisti come si entrava in fabbrica a Genova nei Sessanta, per raccomandazione, attraverso le filiere del parroco o quelle della CISL, e scopriamo come avvenne il rapido crescere di una nuova consapevolezza operaia all’interno delle fabbriche, fino alla nascita dei Consigli di fabbrica.
Dai ricordi riemerge il diffondersi delle lotte, l’apparire di un orgoglio nuovo per le conquiste ottenute, di uno spirito comunitario lontano dalla supponenza dei vecchi operai specializzati. Sullo sfondo di queste storie si stagliano le grandi concentrazioni operaie genovesi di quegli anni, riappare per accenni l’esistenza che si conduceva nei quartieri del Ponente, da Sampierdarena fino alla Val Polcevera. Ma ci sono anche gli “interiors”: gli appartamenti in cui si faceva per la prima volta vita indipendente dalle famiglie di origine, l’acquisto degli elettrodomestici, le amicizie e le relazioni di genere.
A questo spaccato d’epoca fa da contraltare la seconda parte, dedicata al mondo del lavoro contemporaneo, in cui si raccontano i giovani trasportatori della logistica, i lavoratori dell’interinale: parla Simonetta che fa le consegne dei pacchi, parla Pablo, che ha lavorato come operaio in Fincantieri. Il panorama che si disegna nella contemporaneità è scomposto, diseguale, difforme. Scompare quasi del tutto la dimensione del collettivo, della rivendicazione comune. Il lavoratore è solo, a volte confinato in dimensioni di autosfruttamento, come nella logistica dominata da forme aperte o mascherate di cottimo, si vede obbligato a una mobilità estrema, mentre si dissolve il confine tra ambito lavorativo e ambito domestico, e l’attività lavorativa invade il privato, lo colonizza.
Nelle testimonianze riportate è drammaticamente leggibile il modo in cui il conflitto rimosso nella nuova composizione socio-produttiva si riconfiguri in figure inedite: emergono rancori, sentimenti di competizione con gli altri operai che godono di un trattamento differenziato, ma anche desiderio di rivalsa e di affermazione personale. Un mutamento di scenario che da una parte spiega come, quasi senza soluzione di continuità, i vuoti lasciati dall’inabissarsi delle precedenti culture lavoristiche (quelle costitutive dell’identità politica del movimento operaio, per intenderci) siano stati riempiti da istanze di tipo populista e conservatore. E dall’altra implica un inedito ruolo giocato dal “territorio” – dalle dinamiche “di luogo” – non più solo contesto dei fenomeni ma soggetto e protagonista di giochi competitivi e/o cooperativi a geometria variabile, in uno spazio sovraordinato in continua trasformazione e in continua pressione sulle proprie componenti.
La continuità col passato si dà dunque principalmente all’interno delle costanti sfruttamento/oppressione, che perdurano attraverso le diverse scansioni temporali e le variate modalità di organizzazione della produzione. Nonostante siano fenomeni ben noti, sorprende in queste testimonianze il tornare di espedienti di sapore ottocentesco come i meschini giochi di prestigio sulla busta paga, l’ossessione del padronato per l’estensione dei tempi di lavoro, che giunge fino a impedire persino di andare in bagno ai dipendenti, i ricatti e le minacce ai lavoratori migranti, sulla cui fragile condizione di soggiorno nel nostro paese si gioca cinicamente.
Ma ci sono anche le lotte: sotterranee, a volte condotte individualmente, forme di resistenza tenaci e inestirpabili che attraversano anche settori del lavoro frammentati e individualizzati, e che ci dicono che il grande trait-d’-union tra il passato e il presente consiste anche nel perdurare delle lotte, sia pure in un contesto profondamente cambiato. Il conflitto in fondo rimane la forma principe con cui la variegata composizione sociale presente nel libro parla e si racconta, anche se si presenta ora come sotterraneo e carsico.
Il testo di Rota si propone allora come un efficace sensore che ci aiuta a cogliere i segnali che da sotto la superficie ci avvertono del mutamento in corso negli spazi del vivere e del produrre, mutamenti che vanno ben oltre quello che fu, nel mondo di ieri, il confine della fabbrica.
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