Trump, i "folli" e la democrazia razionale

di Jacques Rancière - traduzione dal portoghese di Stefano Rota

Assistendo all'assalto al Campidoglio, può sembrare sorprendente vedere i sostenitori di Trump negare incessantemente i fatti al punto da sprofondare in una violenza fanatica. Alcuni li vedono come spiriti creduloni ingannati da notizie false. Ma come possiamo ancora credere a questa favola quando viviamo in un mondo in cui c'è una sovrabbondanza di notizie e commenti che "decifrano" le notizie? Infatti, se le persone rifiutano ciò che è ovvio, non è perché sono stupide, è per mostrare che sono intelligenti. Segno di una perversione inscritta nella struttura stessa della nostra ragione.

 

È facile prendere in giro le follie di Donald Trump e indignarsi per la violenza dei suoi fanatici. Ma lo scatenarsi della più pura irrazionalità al centro del processo elettorale, nel Paese meglio predisposto per gestire l'alternanza in un sistema rappresentativo, solleva anche interrogativi sul mondo che condividiamo con esso: un mondo che pensavamo fosse il mondo del pensiero razionale e della democrazia pacifica. E la prima domanda è ovviamente: come possono le persone rifiutarsi ostinatamente di riconoscere i fatti meglio attestati, e come può questo rifiuto essere condiviso e sostenuto così ampiamente?

 

Ci sono persone che ancora si aggrappano a una vecchia ancora di salvezza: chi non vuole riconoscere i fatti è visto come ignorante, male informato; o come ingenuo, ingannato da false notizie. Questo è il classico idillio di un popolo buono ma ingenuo; che si lascia trasportare, ma che deve solo imparare ad informarsi sui fatti e giudicarli criticamente.

L'argomento, quindi, deve essere ribaltato: se le persone rifiutano l'ovvio, non è perché sono stupide, è per dimostrare che sono intelligenti. E l'intelligenza, come sappiamo, consiste nel diffidare dei fatti e nel mettere in discussione lo scopo dell'enorme massa di informazioni che ci raggiunge ogni giorno. La risposta sarebbe, del tutto naturalmente, che è per ingannare le persone, perché ciò che è esposto alla vista di tutti di solito è lì per nascondere la verità, che dobbiamo essere in grado di svelare - nascosta sotto la falsa apparenza dei fatti presentati.

 

Il punto di forza di questa risposta è che soddisfa allo stesso tempo sia i più fanatici sia i più scettici. Una delle caratteristiche notevoli della nuova estrema destra è il posto occupato dalle teorie cospirative e negazioniste. Queste teorie hanno aspetti deliranti, come la teoria della grande cospirazione pedofila internazionale. Ma questo delirio è in definitiva solo la forma estrema di un tipo di razionalità che è generalmente apprezzata nelle nostre società: si tratta di quella che ci richiede di vedere ogni fatto particolare come conseguenza di un ordine globale, ponendolo in connessione con tutto ciò che ci circonda, una connessione che spiega e mostra quell’ordine, in modo molto diverso da ciò che appariva a prima vista.

Sappiamo che questo principio di spiegare tutto per somma di connessioni funziona anche al contrario: è sempre possibile negare un fatto invocando l'assenza di un anello nella catena di condizioni che lo rendano possibile. Questo, come sappiamo, è il modo con cui alcuni intellettuali marxisti radicali negavano l'esistenza delle camere a gas naziste, poiché era impossibile dedurne la necessità partendo dalla logica complessiva del sistema capitalista. E, ancora oggi, alcuni raffinati intellettuali hanno visto il coronavirus come una favola inventata dai nostri governi per controllarci meglio.

La logica alla base della cospirazione e delle teorie negazioniste non è peculiare delle menti semplici e dei cervelli malati. Le loro forme estreme testimoniano la quota di irragionevolezza e superstizione presente al cuore della forma dominante di razionalità nelle nostre società e nei modi di pensare che interpretano il modo in cui funzionano. La possibilità di negare tutto non è il tipo di "relativismo" sfidato da menti serie che si considerano custodi dell'universalità razionale. È una perversione inscritta nella struttura stessa della nostra ragione.

 

Si potrebbe dire che per negare tutto non è sufficiente avere a disposizione armi intellettuali. È anche necessario volerlo. È assolutamente vero. Ma dobbiamo esaminare il contenuto di questa volontà o affetto che porta a credere o non credere.

È improbabile che i settantacinque milioni di elettori che hanno votato per Trump siano menti deboli convinte dai suoi discorsi e dalle false informazioni che trasmettono. Non credono nel senso che ritengono vero ciò che lui dice, credono nel senso di essere felici di sentire quello che sentono: un piacere che può essere espresso in una scheda elettorale ogni quattro o cinque anni, ma molto più semplicemente ogni giorno in un semplice "mi piace". E i venditori ambulanti di false informazioni non sono né persone ingenue che immaginano che sia vero né cinici che sanno che è falso. Sono semplicemente persone che vogliono che sia così, che vogliono vedere, pensare, sentire e vivere nella comunità di sentimenti che queste parole intrecciano.

Come dovremmo intendere questa comunità e questo desiderio? È qui che ci attende un'altra nozione pigra, quella del populismo. Invece di un popolo buono e ingenuo, questo evoca un popolo frustrato e invidioso, pronto a seguire qualcuno che sa come incarnare i loro risentimenti e sottolineare la loro causa.

Trump, ci viene detto, è il rappresentante dell'angoscia e della rabbia delle comunità bianche svantaggiate; quelle lasciate indietro dalla trasformazione economica e sociale; coloro che hanno perso il lavoro con la deindustrializzazione e i propri tratti identitari con le nuove forme di vita e cultura; coloro che si sentono abbandonati dalle élite politiche remote e disprezzati dalle élite istruite. Il fenomeno non è nuovo: è lo stesso modo con cui la disoccupazione serviva negli anni '30 come spiegazione del nazismo e viene ripetutamente usata per spiegare qualsiasi progresso dell'estrema destra nei nostri paesi. Ma come possiamo credere seriamente che i settantacinque milioni di elettori di Trump si adattino tutti a questo profilo di vittime di crisi, disoccupazione e impoverimento? È quindi necessario abbandonare la seconda ancora di salvezza del benessere intellettuale, la figura tradizionale di un popolo nel ruolo di attore irrazionale: un popolo frustrato e brutale che si contrappone al popolo buono e ingenuo.

 

Più profondamente, abbiamo bisogno di mettere in discussione questa forma di razionalità pseudo-erudita, che cerca di trasformare le forme di espressione politica del popolo-soggetto in caratteristiche appartenenti a questo o quello strato sociale in ascesa o declino. Un popolo politico non è l'espressione di un popolo sociologico che lo preesiste. È una creazione specifica: il prodotto di una serie di istituzioni, procedure e forme di azione, ma anche di parole, frasi, immagini e rappresentazioni che non esprimono i sentimenti di un popolo esistente ma creano un popolo particolare, creando uno specifico regime di affetti per esso.

Il popolo di Trump non è l'espressione di strati sociali in difficoltà e in cerca di un protettore. È soprattutto un popolo prodotto da una specifica istituzione in cui molti vedono ostinatamente l'espressione suprema della democrazia: quella che instaura un rapporto immediato e reciproco tra un individuo che si ritiene incarni il potere di tutti e un collettivo di individui che si riconosce in lui. È anche un popolo costruito da una particolare forma di appartenenza, l'indirizzo personalizzato reso possibile dalle nuove tecnologie di comunicazione, dove il leader parla ogni giorno a tutti, come uomo pubblico e privato, utilizzando le stesse forme di comunicazione che permette a ciascuno di dire ogni giorno ciò che ha in mente o nel cuore.

Si tratta, infine, di un popolo costruito dallo specifico sistema di affetti che Donald Trump ha mantenuto attraverso questo sistema di comunicazione: un sistema di affetti che non è destinato a nessuna classe particolare e che gioca non sulla frustrazione ma, al contrario, sulla soddisfazione per la propria condizione, non su un sentimento di disuguaglianza da riparare ma su un sentimento di privilegio da mantenere nei confronti di tutti coloro che vorrebbero attaccarlo.

 

Non c'è niente di misterioso nella passione a cui Trump fa appello, è la passione per la disuguaglianza, la passione che permette sia ai ricchi sia ai poveri di trovare una moltitudine di inferiori sui quali devono a tutti i costi mantenere la loro superiorità. In effetti, c'è sempre una superiorità a cui si può partecipare: superiorità degli uomini sulle donne, delle donne bianche sulle donne di colore, dei lavoratori sui disoccupati, di coloro che lavorano nelle occupazioni del futuro sugli altri, di quelli con una buona assicurazione sul coloro che dipendono dal sostegno pubblico, dei nativi sui migranti, dei cittadini sugli stranieri e dei cittadini della madre patria della democrazia sul resto dell'umanità.

La co-presenza, nel Campidoglio occupato dai teppisti trumpiani, sia della bandiera dei tredici stati fondatori, sia della bandiera del Sud schiavista illustra molto bene questo singolare montaggio che fa dell'uguaglianza una prova suprema della disuguaglianza e della “ricerca della felicità” un affetto odioso. Ma l'ethos di una particolare nazione non può essere equiparato né a questa identificazione del potere del popolo con una serie infinita di superiorità e odi, né a un particolare strato sociale. Conosciamo il ruolo svolto nel nostro paese dall'opposizione tra una 'Francia laboriosa' e una 'Francia miserabile’, tra chi va avanti e chi resta dipendente da sistemi arcaici di protezione sociale, o tra cittadini del paese dell’Illuminismo e diritti umani e popolazioni arretrate e fanatiche che ne minacciano l'integrità. E possiamo vedere, ogni giorno su Internet, tra i commenti dei lettori di giornali l'odio che alcune persone manifestano verso qualunque forma di uguaglianza.

 

Proprio come la negazione ostinata non è il segno di menti arretrate ma una variante della razionalità dominante, così la cultura dell'odio non è il prodotto di strati sociali svantaggiati ma del funzionamento delle nostre istituzioni. È un modo per "forgiare le persone", un modo per creare un popolo che appartiene alla logica della disuguaglianza. Quasi duecento anni fa, Joseph Jacotot, pensatore dell'emancipazione intellettuale, mostrò come la follia anti-egualitaria fosse la base di una società in cui ogni inferiore poteva trovare qualcuno inferiore a lui e godere di questa superiorità. Solo un quarto di secolo fa ho suggerito da parte mia che l'identificazione della democrazia con il consenso produceva, al posto di un popolo di divisione sociale, ora dichiarato arcaico, un popolo molto più arcaico basato unicamente sugli affetti di odio ed esclusione.

Piuttosto che il conforto dell'indignazione o della derisione, gli eventi che hanno segnato la fine della presidenza di Donald Trump dovrebbero spingerci a guardare un po' più da vicino le forme di pensiero che chiamiamo razionali e le forme di comunità che chiamiamo democratiche.

 

 

L’articolo è stato pubblicato da Outras Palavras e, originariamente, da Analyse Opinion Critique

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