Un giorno di circa due mesi fa incontro Manlio Calegari alla libreria “l’Amico Ritrovato”, a Genova. Era uno dei docenti di Balbi 4 che, tra gli anni ’70 e ‘80, costituivano il gruppo di riferimento per chi immaginava, e praticava, un’altra idea di università. Ovviamente non si ricordava di me, e non solo perché sono trascorsi alcuni decenni da quando frequentavo anch’io quel laboratorio di pensiero e ricerca radicale, ma soprattutto perché la mia condizione personale di studente lavoratore limitava molto il tempo da dedicare alle lezioni.
Dopo avergli detto su cosa avevo fatto la mia tesi con Massimo Quaini, altro illuminato rappresentante di quel gruppo di docenti, Calegari mi sorprende con una domanda che mi ha inchiodato allo scafale a cui ero precariamente appoggiato. “Perché non scrivi un articolo sull’argomento della tua tesi? A distanza di decenni queste cose di solito producono risultati interessanti”. Devo dire che lì per lì mi era sembrata un’idea molto interessante, di cui però mi sono scordato poco dopo averlo salutato e lasciato alle sue ricerche bibliografiche. Un articolo su Jacobin Italia, segnalatomi recentemente dal mio amico Giuseppe, mi ha fatto tornare in mente quel suggerimento donatomi da Calegari. Si tratta di “Il mondo riconfigurato”, di Francesco Abbate, una interessante disamina di quale sia il rapporto tra territorio e mappe nell’era del digitale, ma non solo. “[…] Non esistono mappe fisiche ma solo politiche nel senso che ogni mappa, anche la più fedele alla natura di un territorio, dal momento che definisce dei punti cardinali, delle estensioni, dei confini (che anche se naturali, sono comunque costantemente soggetti a movimenti e cambiamenti che la mappa invece cristallizza) opera una trasformazione su di esso”, dice l’autore.
Questa affermazione riecheggia, sia pur in modo meno chiaro e con minor consapevolezza del suo profondo significato, nel lavoro svolto 36 anni fa sull’opera cartografica di William Henry Smyth, membro della Royal Geographical Society e inviato dalla corona britannica a produrre le prime carte nautiche moderne, quindi basate sulla proiezione di Mercatore, delle coste italiane all’inizio del XIX secolo. Come tutti i grandi viaggiatori e cartografi del periodo, Smyth era anche altro e la sua attività non si è limitata alla produzione di carte: esperto di antiquariato e archeologia, appassionato di antropologia e filosofia, nonché studioso di astronomia, riempiva i suoi trattati sulle coste italiane con note di commento molto ricche sulle abitudini delle popolazioni incontrate, sull’utilizzo di strumenti per lo svolgimento delle attività quotidiane delle comunità di pescatori incontrate che dovevano risultare alquanto inusuali a un mandatario della corona inglese e membro della buona società d’oltremanica.
Le carte prodotte da Smyth per tutto il perimetro delle coste italiane sono accompagnate da un manoscritto che descrive con una dovizia di particolari impressionante tutto quanto non può essere riportato sulla carta: di lui, Elio Manzi dice che “riunisce le doti dei migliori cartografi sette-ottocenteschi. […] L’inglese impersona, insomma, nei riguardi del Mezzogiorno e della Sicilia, l’ultima figura notevole di geografo ‘integrale’”.
Sappiamo tutti quanto la produzione di mappe affidabili e di varia natura sia da sempre e continui a essere oggi l’ossessione di ogni decision maker, in qualunque campo egli operi. Per cogliere il portato politico e strategico delle attività cartografiche svolte da fine XVI alla metà del XIX secolo, basti pensare che la proiezione di Mercatore, la tecnica ancora oggi in uso per la produzione di carte nautiche, risale, non a caso, alla seconda metà del XVI secolo. È il periodo delle grandi esplorazioni, dell’inizio dei sistematici saccheggi delle terre d’oltremare che danno avvio all’accumulazione originaria che, come evidenzia David Harvey, si riproduce e si rinnova costantemente nelle pratiche di estrattivismo e spoliazione. L’importanza della rivoluzione che ha messo in moto la proiezione di Mercatore consiste nel poter tracciare sulla carta la rotta con una linea retta che, se non necessita di cambiamenti dovuti a ostacoli, definisce il tracciato più breve e con angolatura costante rispetto al nord tra due punti anche migliaia di miglia distanti tra loro.
Se non è un caso che quella tecnica cartografica risalga al periodo delle origini del capitalismo, sancendo la centralità del saccheggio delle risorse e del commercio di schiavi tra le pratiche che ne hanno consentito il suo sviluppo e consolidamento come sistema produttivo globale, non è neppure un caso se è solo tra la fine del XVIII e inizio del XIX secolo che l’attività cartografica si espande in modo molto significativo. Nel corso del periodo che Foucault chiama “Âge classique” (XVII-XVIII secolo) si consolida un mutamento nell’”arte di governo” che presuppone un’approfondita conoscenza del territorio e delle sue risorse, delle popolazioni che lo abitano e del loro stato economico, sociale e sanitario. La governamentalità dei moderni stati-nazione trova un decisivo sostegno nella statistica e nell’economia politica, il territorio e la popolazione divengono oggetto di interventi improntati alla razionalità, sotto la spinta di fisiocratici e mercantilisti.
Lo sviluppo di tecniche e strumenti per la rilevazione favorisce il soddisfacimento dell’esigenza di nuove forme di conoscenza delle superfici, dei loro spazi e delle popolazioni che li abitano. Le innovazioni nella strumentazione utilizzata sulla terraferma vengono ben presto estese anche ai mari, inizialmente per la fascia costiera, facendo ricorso alla triangolazione, il teodolite, il sestante, il quadrante e l’uso del cronometro, già nel corso degli ultimi decenni del XVIII secolo, ma consolidatesi a partire dagli anni Venti del XIX secolo. Inutile dire che tali esigenze si combinavano naturalmente con l’utilizzazione delle mappe in caso di eventi bellici. Non a caso, l’attività di mappatura del Mediterraneo, a cui presero parte Smyth, Beaufort e altri per conto della corona inglese e altrettanti cartografi al servizio della Francia, avviene pochissimi anni dopo la conclusione delle guerre napoleoniche.
Federico JV di Borbone fu particolarmente grato al cartografo inglese e al suo predecessore, Giovanni Antonio Rizzi Zannoni, per la loro attività che, più che rappresentare, costituiva di fatto il Regno delle Due Sicilie, lo produceva da un punto di vista logistico e geopolitico, nel momento in cui gli dava linee, forme, distanze, percorribilità, lo trasformava in qualcos’altro tramite la sua “traduzione” in linguaggio cartografico. Come ogni atto traduttivo, anche la produzione di mappe non si limita a traslare da un luogo a un altro: è la generazione di qualcosa che prima esisteva in altro modo, a volte neppure comparabile con il nuovo che si viene producendo per il tipo di conseguenze che comporta. Il mondo mappato non corrisponde più all’idea di territorio che si aveva prima, da un punto di vista geopolitico, economico, antropologico e culturale.
Nell’idea di mappa assume un ruolo centrale la linea. Già in precedenza vi si è fatto riferimento come elemento di novità rispetto alla funzione che svolge nella carta di Mercatore, nella misura in cui unisce due punti tagliando i meridiani sempre con lo stesso angolo. Se consideriamo questi ultimi e i paralleli che intersecano, la linea che viene tracciata su una carta sta dentro le logiche di funzionamento di una rete. La fissità dei punti di intersezione tra meridiani e paralleli come nodi preesistenti al tracciato della linea, così come i due luoghi fisici che essa unisce e di quelli la cui rilevazione consente di tracciarla producono quell’idea di rete. Questa consente un lavoro di superficie, senza alcuna tendenza alla verticalizzazione come nell’era precedente, un lavoro che si dispiega e organizza lo spazio secondo criteri di scientificità. Nuovi stati nei continenti colonizzati verranno definiti dalle potenze europee sulla base di questo reticolato fisso di punti, cancellando o ignorando precedenti suddivisioni. Ma la funzionalità della rete non si limita a spazi estesi: nella lotta alla peste del XVII secolo, analizzata sempre da Foucault, svolge un ruolo fondamentale la suddivisione della città in spazi rigidamente determinati, che consentono un controllo capillare della pandemia e della popolazione interessata. Anche in questo caso, la mappa così ottenuta restituisce un’altra città, controllabile e razionalizzabile, ben diversa da quel dedalo di vie e quartieri per lo più sconosciuti alle autorità, sovraffollati, malsani e “illegali” che costituivano il cuore dei centri urbani all’alba della nascente industrializzazione.
La rete che compone le nuove carte a partire dalla metà del XVI secolo rende il mondo percorribile, navigabile e affidabile a qualunque latitudine. Non è più necessaria una approfondita conoscenza delle aree oceaniche da attraversare per potervisi inoltrare, viene eliminata o comunque ridotta molto l’imperscrutabilità di mari sconosciuti. La linea che vi viene tracciata sta totalmente dentro questa nuova consapevolezza, non viene neppure contemplata la possibilità di non tenerne conto. La mappa offre punti di riferimento scientificamente determinati in uno spazio quadrettato dai nodi della rete, avvicina temporalmente le aree di estrazione e spoliazione, rende prevedibili i tempi di appropriazione delle risorse che vengono saccheggiate. Il suo essere divenuto strumento indispensabile a questi fini, fa sì che inglesi e olandesi si guardino bene dal rendere pubbliche le carte che i loro studiosi e viaggiatori producono con sempre maggior dettagli e precisione.
La rete, con la sua struttura a connessioni fisse, la razionalità che la rende affidabile e prevedibile per i risultati che si pone e i flussi che la attraversano, costituisce il modello di funzionamento dello sviluppo capitalistico. Tutto avviene sul piano della superficie; è lì dove ogni evento deve essere riportato. Anche i processi che vengono spiegati attraverso una sorta di movimento verticale (si pensi ad esempio al legame tra protestantesimo e spirito del capitalismo analizzato da Weber), o di trascendenza, nascono, si sviluppano e devono essere ricondotti alla loro altezza superficiale, al “piano d’immanenza”.
Lo sviluppo terreno della rete fa della mappa il luogo che stabilisce un nuovo ordine del simbolico centrata sulla finitudine dell’uomo e della Terra che abita. Questi agisce non più secondo una logica verticale, ma orizzontale, lungo i nodi della rete, ampliandola e rendendola permeabile a interventi e interferenze, ma sempre all’interno di uno spazio definito e organizzato dalle logiche di funzionalità al modello di sviluppo dominante. La cartografia assume così il peso di una “scienza regale” che toglie imprevedibilità, possibilità di fuga dai movimenti e dai flussi che attraversano i nodi.
Come facevano i cartografi del XVIII e XIX secolo sui prodotti dei loro predecessori, ognuno di noi oggi è in grado di intervenire su una mappa, aggiornarla con qualche nuova attività che si svolge in quel territorio, aggiungere una foto, suggerire un percorso, indicare un pericolo o una criticità. Google Earth ha reso pressoché infiniti gli interventi di questo tipo. Non si tratta però di uno “spazio liscio”, dove tutto è possibile secondo una logica nomadica e selvaggia. Il connotato regale anche di questa mappa, dove il sovrano indiscusso è l’algoritmo, restituisce sempre e ancora uno spazio “striato”, organizzato secondo schemi da cui è impossibile prescindere. Possiamo aggiungere uno o più nodi alla rete che dà vita alla mappa, possiamo intervenire su di un territorio evidenziandone aspetti e ignorandone altri, ma non potremo mai sostituirci all’algoritmo che ha l’ultima parola sulla presentabilità della nostra mappa alla sua sterminata utenza.
Un interessante esperimento di mappa è stato realizzato da Marco Veruggio, con oggetto la rete di Amazon sul territorio nazionale. Attenendosi alla logica militare sottesa al modus operandi di Amazon e più in generale delle operazioni della logistica a livello globale, Veruggio chiama intelligentemente il prodotto di questa mappa “la campagna d’Italia di Amazon”. La strategicità dei luoghi scelti per i propri impianti, suddivisi per funzione operativa nel ciclo produttivo, la loro riproduzione sulla mappa definiscono una rete nella rete. Guardando il risultato, appare evidente come la sovrapposizione tra quella geopolitica e quella logistico-militare sia tutt’altro che casuale: la seconda si innesta sulla prima, offrendo una riproduzione del territorio nazionale che tiene conto di una molteplicità di elementi (di attori, o di “attanti”) di diversa natura e di uguale importanza.
Quello che ci restituisce il prodotto della mappa-rete è, quindi, qualcosa che nasce dall’interazione costante e mutevole tra azioni umane, enti non-umani, tecniche, elementi corografici, metereologici, risorse del territorio e altro ancora. Ogni mappa è un prodotto della “relatività”: guardando quel territorio da un altro punto di vista, mettendo in relazione diversa, con un diverso grado di centralità, gli elementi considerati o scoprendone di nuovi, si può produrre una mappa differente. Nelle mappe soggettività e oggettività si combinano continuamente con geometrie variabili, fino a togliere significato alla storica contrapposizione tra i due approcci.
Su questi aspetti Bruno Latour ha marcato in modo definitivo una modalità d’intervento che non lascia più spazio a facili semplificazioni. “Tutte le scienze hanno inventato modi di spostarsi da un punto di vista all’altro, da un quadro di riferimento all’altro, per l’amor del Cielo: si chiama relatività”.
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