Enrico Fravega*
L’anno scorso, tra la fine dell’inverno e l’inizio della primavera, quando la pandemia di Covid19 dilagava, anche in Italia, causando decine di migliaia di vittime e dando luogo all’imposizione di un lockdown durissimo e di durata (allora) indefinita, tra le molteplici retoriche messe in circolo per dare senso ad una situazione sociale completamente inedita e dai risvolti imprevedibili, una di quelle più potenti, simbolicamente e mediaticamente, era quella sintetizzata nel #iorestoacasa. L’idea di fondo era quella di rinforzare, tra la gente, l’idea dell’auto-confinamento, nei perimetri più o meno ristretti delle proprie abitazioni, come misura di riduzione del rischio di esposizione al Covid19. Un messaggio che sottintendeva che tutti avessero un alloggio confortevole e che per tutti, sostanzialmente, casa e famiglia coincidessero.
Due presupposti che non possono essere dati per scontati. #iorestoacasa, infatti, è un punto di vista che sembra escludere dallo sguardo – e quindi dalla società – chi non vive in una casa ma abita in situazioni di accoglienza collettiva (come i richiedenti asilo, i senza fissa dimora, i MSNA, ecc.), chi non vive in una casa confortevole e chi non vive con la propria famiglia.
L’idea di Refugee’s Lockdown nasce in quel momento. Dal riconoscimento che richiedenti asilo e rifugiati/e, spesso, si trovano esattamente in questa condizione. E dalla considerazione che questo momento, con le mille difficoltà ed i cambiamenti che ha operato nella quotidianità delle persone andrebbe raccontato dal loro punto di vista. Anzi, raccontato da loro, attraverso il linguaggio universale delle immagini.
In questo senso, Refugees’ Lockdown – che ha preso forma grazie all’incontro di un piccolo gruppo di ricercatori, illustratori, fotografi e videomaker – può essere definito come un progetto artistico-sociale di carattere partecipativo.
L’obiettivo del progetto è quello di raccogliere i racconti per immagini (fotografie, illustrazioni e video) della pandemia, realizzati da donne o uomini che hanno fatto domanda di protezione internazionale in Italia e che tra il 1° gennaio 2020 e il prossimo 31 maggio 2021 hanno trascorso almeno un mese in una struttura del sistema di accoglienza italiano. Ovvero, nei cosiddetti CAS (centri di accoglienza straordinaria) o nell’accoglienza di secondo livello (SPRAR/SIPROIMI/SAI).
La scelta del visuale come modalità espressiva per raccontare la pandemia di rifugiati/e e richiedenti asilo è dovuta al fatto che le immagini consentono, molto più delle parole, di mettere in risalto gli aspetti emotivi e il punto di vista di chi racconta. Inoltre, il linguaggio visuale è universale e non pone problemi di espressione a chi ha una minore conoscenza della lingua italiana.
Le immagini raccolte saranno utilizzate per la costituzione di un archivio visuale legato al tema delle migrazioni e della pandemia. Inoltre, in relazione alla quantità e alla qualità del materiale raccolto le stesse immagini potranno essere utilizzate per la realizzazione di un’opera artistica collettiva che potrebbe assumere la forma di un documentario, di un’installazione artistica, un’esposizione, ecc.
Non necessariamente le immagini devono essere legate al tema della malattia, o a quello della cura. Piuttosto, si incoraggia l’invio di immagini che raccontino la vita di tutti i giorni, le amicizie, aspirazioni e sogni, ma anche i sentimenti di paura ed i desideri, le restrizioni ed il senso di libertà vissuti da richiedenti asilo e rifugiati/e, nel corso della pandemia.
L’ambizione del progetto, in altre parole, è quella di contribuire allo sviluppo di una contro-narrazione sulle migrazioni e sulla pandemia che coinvolga direttamente, e abbia come protagonisti, i migranti stessi.
Raggiungere questo obiettivo non è semplice. È necessario, infatti, che il progetto sia conosciuto da chi potrebbe aderire o da chi è in contatto con persone che potrebbero essere interessate ad aderire. Occorre poi che l’approccio e l’obiettivo del progetto siano condivisi dalle persone e dalle organizzazioni che lo fanno circolare. E, infine, è indispensabile che i destinatari del progetto non solo comprendano e condividano le finalità del progetto, ma si sentano nelle condizioni di partecipare.
Sui primi due punti stiamo lavorando quotidianamente contattando i molti soggetti, formali (ONG, onlus, associazioni) e informali (comitati spontanei, gruppi di attivisti, ecc.) che operano nel campo dell’accoglienza e che supportano i migranti su aspetti specifici (es.: salute, lavoro, diritti, transito, ecc.), rendendoci disponibili per incontri e presentazioni. Il terzo punto, invece, rappresenta un nodo critico. Siamo infatti consapevoli del fatto che l’atto di presa di parola sulla propria condizione implica una libertà e una sicurezza dei propri diritti che molti migranti, soprattutto se in accoglienza, non si sentono di avere.
Ma questa, paradossalmente, è una delle più importanti ragioni per cui riteniamo abbia senso impegnarsi in questo progetto, e ringraziamo fin da ora chi ci può aiutare a raggiungere questo obiettivo.
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Refugees’ Lockdown è un progetto artistico-sociale di carattere partecipativo, senza fine di lucro, organizzato senza contributi economici da parte di nessuna istituzione. Promotori: Associazione Oblò, Laboratorio di Sociologia Visuale, Circolo fotografico Controluce.
Informazioni più dettagliate relativamente alle modalità di partecipazione sono disponibili sul sito internet del progetto: www.refugeeslockdown.com. Il sito è accessibile anche in lingua inglese [EN] e in lingua francese [FR].
Rispondiamo volentieri a richieste di informazioni, di presentazioni e di chiarimenti. Per questo, potete scriverci alla mail del progetto: refugeeslockdown@gmail.com
Social network. Fb: @refugeeslockdown; IG: @refugeeslockdown.
*Presidente dell’Associazione Oblò
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