Cittadinanze di mezzo/1

“Trovatemi dunque la giustizia, che assolva tutti, all’infuori dei giudici!”

 

F. Nietzsche, Così parlò Zarathustra

Parecchi anni fa, Cecilia Bartoli, presidente dell’associazione Asinitas al momento della sua fondazione, mi disse una frase sintetica e illuminante. “Quello che stiamo proponendo alla scuola Pisacane [scuola multietnica per eccellenza, nel quartiere di Tor Pignattara, Roma] è una cittadinanza scolastica”. Credo di averla guardata con lo sguardo ebete di chi sente dire qualcosa che inaspettatamente lo investe. Quella frase è stato il punto di partenza di alcune riflessioni sul tema della cittadinanza negli anni che sono trascorsi da allora, e che provo ora a rimettere in ordine.

 

Prendo spunto da una definizione di Engin Isin sulla cittadinanza: “un'istituzione in flusso, incorporata nelle attuali battaglie politiche e sociali che la costituiscono”, quindi “dovrebbe essere sempre interpretata prestando attenzione agli elementi fluidi e dinamici che costituiscono i suoi diritti, luoghi, scale e attori”. (Isin, 2009, pag 370 e 374, trad. mia). Si tratta quindi di un’istituzione che non può prescindere dalla conflittualità, come ribadisce con chiarezza anche Balibar, anzi, dall’insurrezione (Balibar, 2012).

Partendo da qui, vorrei provare a proporre in queste note qualcosa che si potrebbe così riassumere: quale forma il significante cittadinanza è chiamato ad assumere oggi; quali confini deve problematizzare; quale soggetto si costituisce - e a partire da quale posizione rispetto a quegli stessi confini – nel processo di costituzione di una cittadinanza come punto di rottura, come evento. E poi, conseguentemente, quale funzione politica può svolgere un “re-inizio della cittadinanza”.

L’istituzione della cittadinanza per come la si intende qui e la costituzione del soggetto che la abita, la performa, sono due poli di un unico processo che vive di simultaneità. Non esiste uno spazio predefinito a cui il soggetto aderisce e, allo stesso modo, non esiste un soggetto iniziatore che crea uno spazio a sé confacente; ciò che li fa essere tali è il loro simultaneo divenire. Prima di questa simultaneità esiste altro, che corrisponde, rispetto a ciò che essa esprime, al nulla.  

La cittadinanza nella sua accezione più comune, al pari dell’universale e di ogni altra forma che dà senso all’ordine sociale esistente, si struttura sulla presenza di un fuori negativo che la sostanzia e la perimetra. Senza questa presenza, la cittadinanza, la famiglia, lo Stato (ma anche l’azienda, il sindacato, l’ospedale, la scuola, così come i concetti etici e normanti che gli danno senso) si diluirebbero fino a farne perdere il limite, la soglia oltre la quale c’è qualcos’altro. Il limite è il luogo dove è possibile cogliere con più chiarezza in che modo il fuori produce l’interno, la sua parte più profonda, a partire da una negazione che afferma ciò che l’istituzione è. Dando quindi al fuori la funzione di fattore costituente l’interno, la soglia diviene il luogo in cui si producono le contraddizioni che mettono in discussione la solidità della soglia stessa e le modalità con cui l’esterno negativo riesce a produrre e a portare l’antagonismo – cioè a dire ad attivarsi politicamente - all’interno di ciò che lo nega.

Un paragrafo estremamente chiaro sull’importanza del limite è contenuto nella prefazione originale alla Storia della follia, che non compare nelle edizioni successive il 1972 che, per fortuna, Judith Revel ha inserito nel volume da lei curato Archivio Foucault 1.

“Si potrebbe fare una storia dei limiti, di questi gesti oscuri, necessariamente dimenticati non appena compiuti, con i quali una cultura rifiuta qualche cosa che sarà per essa l’Esterno; e nel corso della sua storia, questo vuoto scavato, questo spazio bianco attraverso il quale essa si isola la designa quanto i suoi valori… [In questa regione] opera le sue scelte essenziali, traccia le divisioni che le dà il volto della sua positività; è lì lo spessore originario in cui essa si forma. Interrogare una cultura sulle sue esperienze-limite vuol dire interrogarla, ai confini della storia, su una lacerazione che è come la nascita stessa della sua storia.” (Foucault, 2014, p. 51).

Il fuori che sta oltre la soglia è uno spazio popolato da umani e non-umani connotati da dispensabilità, espulsioni, mutilazioni, precarietà. Quello che la soglia stessa mette in evidenza è un’irreversibile eterogeneità tra ciò che sta dentro e ciò che sta fuori, un’eterogeneità che non trova sintesi nelle mediazioni dialettiche e dalle rappresentazioni simboliche che governano e danno senso all’interno.

“Per ‘rapporto eterogeneo’ intendiamo un rapporto tra elementi che non appartengono al medesimo spazio di rappresentazione” (Laclau, 2020, p. 73). Perché ci sia eterogeneità è necessaria la presenza di un Fuori, un’aporia che metta costantemente in discussione l’universalità che quelle mediazioni dialettiche reificano e che costituisce la condizione di possibilità per quella stessa universalità. Uno spazio che presenta degli scarti, quindi non saturo, è uno spazio in cui “l’eterogeneità si presenta come costitutiva”, dove “l’antagonismo [è] concettualmente inafferrabile”. Si tratta di un fuori radicale non dominabile simbolicamente, che eccede i rapporti di produzione e così facendo problematizza alcuni dei concetti che stanno alla base del nostro abituale modo di intendere la conflittualità sociale. Quel Fuori radicale rimanda alle definizioni di “senza parte”, richiede una diversa “partizione del sensibile” rispetto a una divisione che separa “coloro che vediamo e coloro che non vediamo” (Ranciére, 2007, p. 43). In quello spazio, sostiene anche Butler, si muovono corpi che necessitano di altre interpretazioni e articolazioni rispetto a quelle proposte da un marxismo ortodosso che definisce secondo una rigida sequenza le condizioni affinché si giunga alla costituzione dell’unico soggetto che, emergendo, sia in grado di produrre inevitabilmente la dissoluzione dell’ordine mondiale, il proletariato (Butler, 2022)[1].

Su questo mi sembra si possa definire un re-inizio della cittadinanza, intesa come una cittadinanza di mezzo, che ha nella soglia il proprio spazio elettivo. Una cittadinanza che fa dell’irrappresentabilità simbolica e dialettica la cifra del suo essere irriducibile alle forme date che perimetrano l’accezione comune del termine e ciò che esprime. È un re-inizio di qualcosa che vede la simultanea produzione di una soggettività in grado di collocarsi all’altezza di ciò che le accade (Rolnik, 2018).

Provo a definire meglio in cosa consista lo spazio in cui deve costituirsi la cittadinanza di mezzo. Si tratta di uno spazio non saturo, dove differenza e intercultura pongono le basi per il riconoscimento di tratti comuni, più che di strutture identitarie. La saturazione blocca e preclude l’esterno, ne fagocita l’esistenza, produce al massimo degli “interni differenziali”. Questo è ciò che contraddistingue l’ambito delle cittadinanze identitarie: non c’è spazio libero, vuoto, c’è solo la possibilità dell’aderenza a ciò che esiste. È lo spazio che si fa immune, per riprendere le categorie introdotte da Roberto Esposito: “immune è chi non è comune, chi spezza il donativo implicito nella communitas” (Esposito, 2022, p. 20). Il passaggio dall’immunità all’autoimmunità produce l’effetto opposto a quello desiderato, con una difesa che diventa tanto forte da rivolgersi contro di sé.

In sintesi, la cittadinanza di mezzo si esplicita in uno spazio, fisico, temporale ed evenemenziale che trasborda i confini geografici, interseca più volte i piani dei confini immateriali, traduce e problematizza costantemente riferimenti culturali e identitari: ci traduce, in altre parole. Definendola “di mezzo”, faccio riferimento all’idea di François Jullien relativa allo scarto tra identità culturali, al “tra” come spazio che non appartiene a nessuna di queste, uno spazio mobile che si contrappone agli arroccamenti identitari (Jullien, 2018).

Ma lo scarto esiste anche all’interno dell’individuo. L’altro non è solo e necessariamente fuori dall’io. Ervin Goffman ne ha data una convincentissima descrizione utilizzando la metafora delle tecniche teatrali: ogni rappresentazione che mettiamo in scena non corrisponde mai totalmente né a quella precedente, né a una forma di assolutizzazione del nostro essere identitario. Ogni rappresentazione ha con sé un senso di verità, che ci rende e ci fa sentire credibili nella parte che mettiamo in scena. Le differenze performate trovano un momento di sospensione “dietro le quinte” (che sarebbe troppo semplicistico far coincidere con una nostra presunta essenza), per ritornare in scena nella successiva rappresentazione identitaria del vero a cui stiamo aderendo (Goffman, 1986). Qui, mi sembra, stia l’elemento centrale della soggettivazione dentro e con il re-inizio della cittadinanza: quello che la connota è il “dono” del tra, mettere in uno spazio di visibilità i tratti che fanno comune. In questo senso, soggettivazione e cittadinanza di mezzo vivono la condizione della simultaneità.

Judith Butler evidenzia un aspetto che mi sembra sia importante per la definizione di ciò che fa la cittadinanza di mezzo e il soggetto che la vive: la visibilità dei corpi nel loro esporsi in uno spazio pubblico (Butler, 2014). La condizione di precarietà insita nell’idea di corpo costantemente in relazione con altri enti, siano essi ulteriori corpi, o reti di varia natura, infrastrutture, è per Butler la condizione per poter parlare in termini politici di corpi, della loro precarietà, vulnerabilità ed esposizione a espulsioni (Sassen, 2015)[2]. Ugualmente, consente di parlare di corpi che si assembrano, che occupano spazi fisici e virtuali, che definiscono di volta in volta priorità, rivendicazioni.

L’esposizione dei corpi in pubblico svolge un ruolo fondamentale. Pensiamo all’immagine del ragazzino di 12 anni in un paese della provincia di Foggia che manifesta da solo seduto in piazza, in occasione di uno dei Friday for Future. È un’immagine potente, ritrae il corpo di un manifestante in un momento di altissimo valore performativo che dice molto della presenza dei corpi nello spazio pubblico.

Evocare quell’immagine intrisa di dolce radicalità, a fronte di infinite altre situazioni in cui la presenza di corpi negli spazi pubblici produce una risonanza decisamente superiore, mi consente di affrontare il tema dell’antagonismo e del politico con maggiore serenità, connettendolo a quanto si sta sostenendo sul significante “cittadinanza”. Chiedersi: ‘quando parliamo di antagonismo politico, cosa intendiamo per antagonismo?’ mi sembra possa essere il modo migliore per collegare l’immagine di Potito (è questo il nome del ragazzino dodicenne della provincia di Foggia) a un’idea di antagonismo che ci induce a fare i conti con altri termini che si connettono a un agire politico: conflitto, classi, popolo, istituzione, corpi, molteplice, comune, tra quelli che mi vengono in mente. Mi sono permesso di parafrasare un passaggio molto celebre di quarantacinque anni fa, con cui cerco una possibile sponda: “Quando parliamo di lotta di classe, cosa intendiamo per lotta?”, si chiede Foucault in due interviste del 1977 (Foucault, 2001 e 2004), ribaltando una visione di lotta che lui stesso aveva precedentemente fatta propria e che non considera più adeguata a descrivere la complessità di conflitti che attraversavano già allora la società[3]. Chiedersi cosa si intenda per lotta, o cosa si intenda per antagonismo, implica altre domande, a cui cercare di dare una risposta soddisfacente va oltre le mie competenze. Quello che mi sento di dare per acquisito è sia una moltiplicazione, sia una frammentazione delle forme di lotta e manifestazioni dell’antagonismo in pratiche politiche che problematizzano il concetto di classe al singolare, rendendo necessaria, come minimo, la sua declinazione al plurale, come indica Lazzarato nel suo ultimo lavoro (Lazzarato, 2022). Ma, anche così facendo, mi sembra siano davvero tante le forme che a fatica potrebbero essere ricondotte al contenitore che, sia pur declinato al plurale, ci tiene fermi alla struttura della classe. Solo per fare un esempio - ma se ne potrebbero fare molti altri - Verónica Gago, intervenendo al convegno sul centennale della Rivoluzione bolscevica organizzato da Esc Atelier, a Roma, ha definito le manifestazioni di Ni una menos in Argentina “popolari”, definizione che mi trova totalmente d’accordo.

Se è vero che l’antagonismo è una forma di agire che mette in discussione tutto o una parte dell’ordine sociale esistente, sarebbe importante fissare le modalità con cui l’antagonismo si manifesta e il rapporto che si stabilisce con il politico. Sono due argomenti molto vasti, che non ho assolutamente la pretesa di trattare in modo esaustivo, ma sui quali provo comunque a formulare alcuni pensieri.

Ripartendo ancora da Potito, l’antagonismo si produce in uno spazio di visibilità, qualunque sia la declinazione che vogliamo dare a questo termine. Va da sé che visibilità si coniuga con presenza e, quindi, con corpo. Una foto di Potito nella propria casa, con lo stesso cartello avrebbe avuto un effetto decisamente diverso. Quello che fa la differenza e che fa di quel gesto una forma di antagonismo è la visibilità della presenza di un corpo in uno spazio pubblico, aperto; una chiara espressione di capacità d’azione, performata da chi è consapevole di dove si trova e dell’interruzione che produce lì dove avviene. Da quest’immagine è facile passare a quelle delle folle oceaniche di Ni una menos e dei FFF, dei movimenti Occupy e prima ancora degli indignados di Madrid, dei ragazzi palestinesi e dei braccianti nelle campagne, fino ai Mapuche, ai Yanomami, ai lavoratori della GKN di Firenze, ai picchetti davanti le aziende della logistica, inclusi i riders del food delivery. Nel momento in cui il Reale del fuori radicale diviene visibile, produce una “rappresentazione dell’irrappresentabile” (Laclau, 2020, p. 78, 81 e nota n. 25 nel testo), un evento che segna un'interruzione.

A quali condizioni esperienze politiche antagoniste riescano a definire il politico dell’antagonismo e che rapporto si possa stabilire con il tema della cittadinanza è il punto su cui provo a fermarmi in queste righe conclusive. Per fare questo, riprendo due passaggi che mi auspico siano di aiuto. Il primo riguarda quella che è, secondo Balibar, la copresenza di insorgenza e costituzione nel farsi della cittadinanza e i continui re-inizi di questa rispetto ai cicli del capitalismo (Balibar, 2012). Il secondo muove dalla definizione del “fuori radicale” data da Laclau, uno spazio che, nel suo essere antagonista, costituisce l’ordine sociale attraverso la sua presenza “negativa”, quindi negata e negante. Tutto ciò che istituisce, struttura, normalizza la società e il suo ordine, insomma, avviene in funzione della presenza di questo fuori.

Sulla base di questi due richiami, provo a sintetizzare un pensiero, solo abbozzato, che si colloca a grandi linee nel punto di loro intersezione. Se è vero che il fuori radicale è il luogo dell’antagonismo, in quello stesso luogo deve prendere vita un re-inizio, insorgente e costituente, della cittadinanza: è la condizione di possibilità per il politico dell’antagonismo. La sua istituzione può avere come base solo le pratiche politiche singolari, ontiche[4], neganti, che attraversano in tutte le direzioni la società, mettono in evidenza le “mutilazioni” di cui parla Assano in “História da solitude” e a reinveção da solidariedade sul web magazine brasiliano OutrasPalavras[5], le quali costituiscono uno dei tratti comuni ai soggetti che, in mille modi differenti, sono interessati da tecniche di estrattivismo [6]. Abbiamo, quindi, una molteplicità di soggetti che si definiscono nell’agire come soggetti dell’estrattivismo, costituenti il fuori negativo di un ordine sociale che norma e istituzionalizza le mutilazioni, espulsioni, negazioni da cui quei soggetti sono affetti. A partire da qui, da questa molteplicità di pratiche politiche sorge l’impazienza di dare vita a un processo che metta al centro il molteplice definito dai tratti comuni che quelle pratiche politiche esprimono. Così definito, il molteplice non è la somma delle singolarità che formano il multiplo: è, piuttosto, la sottrazione della specificità che una pratica politica esprime nel momento in cui si dà valore a ciò che quelle pratiche accomuna. Il multiplo e N+1, il molteplice N-1 (Deleuze, 2014). Detto in altri termini, ci si sposta sul piano dell’ontologia del politico, dell’ontologia dell’antagonismo.

La cittadinanza di mezzo (o del comune), basata sul dono di ciò che, sottratto alle specificità, si palesa nei tratti comuni alle singole azioni regionali, è il significante che mi sembra consenta il passaggio descritto, in quanto “costruzione contingente del legame sociale”. Possiamo vederne le specificità politiche in molte regioni: da quella della scuola Pisacane di Cecilia alle alleanze di corpi nelle piazze descritte da Butler, fino a quella che unisce i Mapuche agli Yanomani, passando per le alleanze avviate dal collettivo del GKN e molto altro ancora.

Solo partendo da lì e dai tratti che hanno in comune si può immaginare un re-inizio della cittadinanza che ci assicuri la possibilità di respirare, e magari anche di cospirare.

 

Testi citati

Balibar, É. (2012). Cittadinanza. Torino: Bollati Boringhieri.

Balibar, É. (2018). Gli Universali. Equivoci, derive e strategie dell'universalismo. Torino: Bollati Boringhieri.

Butler, J. (2017). L'alleanza dei Corpi. Milano: Nottempo.

Butler, J. (2022, Gennaio 06). Judith Butler: Laclau, Marx, and the Performative Power of Negation. Tratto da Verso: https://www.versobooks.com/blogs/5238-judith-butler-laclau-marx-and-the-performative-power-of-negation?fbclid=IwAR1NqoVTgIqQBkvI2y2U_Z9yD1VDMPL3mi5jIjZ34RAFHah7vAXZwQiBVkQ

Deleuze, G. (2014). Il Sapere. Corso su Michel Foucault. 1985-1986 (1). Verona: Ombre Corte.

Dubosc, F. O., & AA.VV. (2019). Lessico della crisi e del possibile. Torino: SEB27.

Esposito, R. (2022). Immunità comune. Biopolitica al tempo della pandemia. Torino: Einaudi.

Foucault, M. (1996, 2014). Follia e discorso - Archivio Foucault 1. Milano: Feltrinelli.

Foucault, M. (2001). Dits et Ecrits Vol. II. Parigi: Gallimard.

Foucault, M. (2004). Dits et Ecrits, Vol III. Parigi: Gallimard.

Isin, E. (2009). Citizenship in flux: the figure of the activist citizen. Subjectivity Issue, p. 367-388.

Jullien, F. (2018). L'Identità culturale non esiste. Torino: Einaudi.

Laclau, E. (2020). Dibattiti e scontri. Per un nuovo orizzonte della politica. Milano: Mimesis.

Lazzarato, M. (2022). L'intollerabile presente, l'urgenza della rivoluzione. Verona: Ombre Corte.

Mezzadra, S., & Brett, N. (2014). Confini e frontiere. Bologna: Il Mulino.

Rolnik, S. (2018). Esferas da Insurreição. São Paulo: N-1 Edições.

 

 

 



[1] Judith Butler ha discusso in modo convincente questi temi in uno scritto dal titolo J. Butler: Laclau, Marx and the performative Power of Negation, https://www.versobooks.com/blogs/5238-judith-butler-laclau-marx-and-the-performative-power-of-negation?fbclid=IwAR01NPmaJ-wcl7IlUvrwFb%E2%80%A6 in cui riprende argomenti già trattati da Laclau nel volume che include la discussione tra Butler, Laclau e Žižek del 2010, Dialoghi sulla Sinistra, Laterza, Bari.

[2] Saskia Sassen utilizza il termine espulsioni riferendosi a un ambito ben più vasto di quello che ha a che vedere con le vite dei soggetti “dispensabili”. Si tratta di tecniche con conseguenze importanti sulla biosfera, altre specie animali, pezzi di territorio, valenze culturali, diritti, modelli comportamentali.

[3] Le interviste sono La torture c’est la raison e Le jeu de Michel Foucault - contenute in Dits et écrits, Tomo II, Gallimard, Parigi, 2001, la prima e Tomo III, 2004, la seconda. Nel primo scritto, Foucault si chiede: “possiamo descrivere la storia come un processo di guerra? come un susseguirsi di vittorie e sconfitte? Questo è un problema importante che il marxismo non ha ancora del tutto superato. Quando parliamo di lotta di classe, cosa intendiamo per lotta? È una questione di guerra, di battaglia? Possiamo decodificare lo scontro, l'oppressione che avviene all'interno di una società e che la caratterizzano, possiamo decifrare questo scontro, questa lotta come una sorta di guerra?” Un tema ripreso nella seconda intervista, dove Foucault afferma: “se si considera che il potere deve essere analizzato in termini di rapporti di potere, mi sembra che qui abbiamo un mezzo per cogliere, molto meglio che in altre elaborazioni teoriche, il rapporto che c'è tra il potere e la lotta, in particolare la lotta di classe. Quello che mi colpisce, nella maggior parte dei testi, se non di Marx, almeno dei marxisti, è che (tranne forse nel caso di Trotskij) viene sempre ignorato cosa intendiamo per lotta quando parliamo di lotta di classe. Cosa significa qui lotta? Confronto dialettico? Lotta politica per il potere? Battaglia economica? Guerra? Società civile attraversata dalla lotta di classe, quale sarebbe la guerra continuata con altri mezzi?”.

[4] In apertura del suo saggio, Marchart distingue “tra la politica ontica ‘ordinaria’ e una nozione ontologica del politico (come dimensione che pertiene all’intero campo del sociale più che a una pratica o campo particolare)”, evidenziando come in francese tale distinzione sia marcata dalla differenziazione tra la politque e le politique. Marchart, cit. pag. 69.

[6] Riconduco, arbitrariamente, il significato di mutilazione al drammatico risultato dell’estrattivismo sui corpi, allo stesso modo in cui un un’attività estrattiva in un territorio produce una mutilazione in quel determinato ecosistema. Sul tema dell’estrattivismo e neo-estrattivismo, https://associazionetransglobal.jimdofree.com/2018/01/06/estrattivismo-e-finanza-la-nuova-miniera-della-povert%C3%A0/ e https://associazionetransglobal.jimdofree.com/2017/10/03/dalle-miniere-ai-corpi-pratiche-di-estrattivismo/ e lo stesso lemma in F. O. Dubosc (a cura di), Lessico della crisi e del possibile, Seb27, Torino, 2019.

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