Da un articolo di Intercept Brasil. Traduzione di Stefano Rota
Nell'ottobre 1978, la Fiat in Brasile era alla vigilia del suo primo sciopero. Gli operai si organizzavano segretamente per paura della repressione militare. I dirigenti italiani e brasiliani sentivano l'elettricità correre nel pavimento della fabbrica e si chiedevano cosa fosse andato storto: anni prima, il governo militare brasiliano aveva assicurato che la società non avrebbe avuto problemi con eventuali blocchi.
Sei giorni prima, il delegato Airton Reis de Carvalho aveva inviato una lettera alla polizia militare della città mineraria di Betim, dove la compagnia aveva costruito un'unità produttiva. Sapeva già cosa sarebbe successo. Nel documento, Reis avvertiva che un dipendente della compagnia trascorreva ore davanti alla stazione di polizia nel tentativo di trovare e liberare un lavoratore arrestato, un leader che avrebbe potuto dare maggior forza allo sciopero. "Sono stati davvero arrestati membri della Fiat", ha spiegato Reis nella sua lettera e ha concluso: "Tutte le misure adottate da questa stazione di polizia nel caso specifico sono in comune accordo con il sig. Colonnello Joffre, della sicurezza di Fiat Automobili S.p.A."
Nel corso di un anno, Intercept ha cercato documenti in Italia e in Brasile e ha parlato con ex dipendenti Fiat, sindacalisti e ricercatori in entrambi i paesi per mostrare come l'azienda italiana abbia spiato dipendenti brasiliani e collaborato con il sistema di repressione del governo militare in cambio di informazioni sul movimento sindacale. Documenti inediti ritrovati presso l'archivio pubblico di Minas Gerais indicano conversazioni avvenute tra l'apparato repressivo dello stato e una gigantesca struttura di spionaggio segreta, comandata da un colonnello di riserva dell'esercito all'interno della casa automobilistica.
Fu grazie a quella struttura che la Fiat riuscì a indebolire il movimento per lo sciopero e mantenne in funzionamento la sua fabbrica: lo stabilimento automobilistico italiano in Sud America sarebbe diventato la sua struttura di maggior successo all'estero. Oggi Fiat in Brasile produce più auto di qualsiasi altro paese ad eccezione dell'Italia e per undici anni è stato il leader delle vendite in Brasile: ha perso la vetta nel 2017 ed è ora il terzo costruttore automobilistico più popolare del paese. Ma quarant’anni fa, quando la società stava espandendo la propria attività fuori dall'Europa, c’era turbolenza all'orizzonte.
La Fiat ha utilizzato il settore per monitorare i lavoratori anche al di fuori della fabbrica e, su questa base, ha permesso l'infiltrazione - in azienda e nelle riunioni sindacali - di agenti del Dipartimento per l’Ordine Politico e Sociale, il Dops - organo di prevenzione e repressione per tutto ciò che la dittatura considerava reati politici e sociali. Dops è responsabile di torture e uccisioni a partire dagli anni '50.
La società ha dichiarato di non avere memoria dei fatti e si è rifiutata di commentare.
Il colonnello spia
Il primo sciopero fu un test per i direttori dell'unità e anche per le autorità. Il movimento sindacale dimostrò che il controllo degli oltre 5.000 lavoratori non sarebbe stato semplice come promesso dall'allora governatore di Minas Gerais, Rondon Pacheco.
Durante i negoziati per portare l’azienda italiana in Brasile, Pacheco aveva assicurato una forza lavoro tranquilla e fatta di"giovani depoliticizzati", con poca istruzione, nessuna cultura sindacale e provenienti n gran parte dalle aree rurali. Gli italiani gli diedero fiducia e sbarcarono in Brasile con l'aiuto dei militari due anni prima dello sciopero. La Fiat ottenne incentivi fiscali e un terreno di due milioni di metri quadrati. Il governo ha anche fornito elettricità, strade asfaltate, fognature, linee telefoniche, telex e collegamento con la strada Belo Horizone – São Paulo.
Il contratto prevedeva una società mista: la Fiat avrebbe mantenuto il 50,1% della fabbrica, mentre il governo di Minas Gerais avrebbe tenuto il resto, ma avrebbe indicato il presidente dell’impresa. Nel giorno in cui l’accordo venne firmato, il presidente della Fiat Giovanni Agnelli, disse di aver scelto il Brasile “per la tranquillità sociale e politica che il paese viveva all’epoca”. Per la Fiat, il colpo di stato del 1964 è stato definito “una rivoluzione”. In un documento del 25 luglio 1974, l’azienda indicava nella politica e nella disuguaglianza sociale del paese possibili ostacoli all’economia. Però, disse, se non ci fossero cambiamenti violenti nell’equilibrio politico, il paese avrebbe continuato a crescere.
Per mettere la fabbrica in funzione con il suo ambizioso obiettivo di produrre 190 mila veicoli all’anno, la Fiat ebbe necessità di portare in loco metallurgici italiani e operai specializzati ed esperti da Santa Catarina e São Paulo, dove esisteva un grande fermento da parte del movimento sindacale.
“Negli scontri tra azienda e lavoratori, la Fiat ha scelto di giocare pesante”
I lavoratori giunti da fuori furono la scintilla del movimento per lo sciopero del 1978, chiedendo non solo salari più alti ma anche l’istituzione di una commissione di rappresentanti dei lavoratori presso l'azienda e soprattutto una riduzione della velocità delle linee di produzione: la Fiat accelerava progressivamente le macchine nell’arco delle giornata lavorativa, portando i lavoratori all'esaurimento.
Il primo sciopero si concluse dopo cinque giorni con un accordo firmato dal sindacato in un'assemblea che contava solo poche decine di persone. La società aveva concesso solo una parte delle promesse, il che mantenne alta la tensione, portando a un nuovo sciopero l'anno successivo. Per evitare ulteiori blocchi, la Fiat decise di giocare pesante; un funzionario acquisì un’importanza che sarebbe durata per molti anni: il colonnello Joffre Mario Klein.
Il militare di riserva, che entrò in azienda addirittura prima dell'inaugurazione, aveva il compito di gestire il dispositivo interno di repressione: una struttura creata e mantenuta dalla Fiat, di cui i dipendenti della fabbrica non sapevano nulla, chiamata Sicurezza e Informazione. Lo scopo della divisione clandestina era quello di schedare i lavoratori e trattare il loro destino con la dittatura.
Nominato dal Serviço Nacional de Informações, all'epoca il nucleo centrale dello spionaggio del governo federale, Klein divenne amico personale di Adolfo Martins da Costa, primo presidente della Fiat in Brasile. "Nessuno è stato assunto senza che mio marito lo sapesse", dice Maria Antonieta Klein, vedova di Joffre, deceduto nel 2008. Ha parlato della storia in due occasioni, una a giugno 2017, a casa sua, l'altra a ottobre, per telefono.
Nella descrizione della vedova, Klein era un uomo "serio e meticoloso". Per i lavoratori della Fiat ascoltati dal rapporto, era "una roccia". “Baffi ben rifiniti, capelli grigi pettinati all'indietro, magro e sempre in abiti impeccabili. Non sapevamo chi fosse, ma sembrava essere certamente di alto rango militare. Era temuto dagli operai, ai quali parlava raramente", ricorda Edmundo Vieira, presidente del sindacato dei metalmeccanici negli anni '80.
Marie Antoinette ricorda almeno un viaggio di suo marito alla sede dell'azienda a Torino, in Italia. Un ex funzionario delle Risorse Umane ha confermato la storia, a condizione di anonimato, e ha detto di più: i viaggi di Klein a Torino sono stati parecchi.
Il colonnello andò in Europa per imparare. L'unità brasiliana della casa automobilistica doveva seguire il sistema di spionaggio adottato nella sede centrale durante gli anni di piombo italiani, secondo un secondo gruppo di documenti, analizzato dal rapporto nelle visite agli archivi ufficiali della sede centrale della società a Torino e al Tribunale di Napoli. La missione di Klein era capire come funzionava la macchina di spionaggio della Fiat e replicare il modello in Minas. Lo spionaggio sul territorio italiano fu reso pubblico negli anni '70 e condusse alla condanna dei responsabili in tribunale. Ma in Brasile, i dettagli dell'apparato di sorveglianza sono rimasti nascosti - fino a oggi.
L’azienda ascoltava le conversazioni telefoniche dei dipendenti
La Fiat spiava i suoi dipendenti in Italia da molti anni, un paese in cui il Partito Comunista e il movimento sindacale erano molto forti. Per anticipare i passi dei lavoratori, la società aveva creato dei dossier. All'inizio degli anni '70, Raffaele Guariniello, ex procuratore di Torino, trovò un archivio di 354.000 fascicoli personali, tutti archiviati nel vecchio edificio aziendale nel centro di Torino. Occupavano un intero piano. "Il programma di spionaggio, corruzione e collaborazione che coinvolge polizia, giudici ed ex personale militare era stato ideato da un ex ufficiale dell'intelligence italiano, uomo di fiducia di Agnelli", ha detto Guariniello in un'intervista presso la pomposa e silenziosa biblioteca del Senato a Roma.
Dopo essere tornato dall'Italia, Klein ha applicato quel metodo in Brasile. Il colonnello istituì, ad esempio, un dispositivo di ascolto per conversazioni sull'unico telefono pubblico installato nel cortile della compagnia. Adriano Sandri, un italiano che ha lavorato presso la Fiat in Brasile, ha dichiarato in una lettera al suo amico e sindacalista italiano Antonio Buzzigoli che i telefoni erano controllati e che il capo della sorveglianza conservava tutte le registrazioni delle chiamate sindacali per identificare i leader e minare le loro azioni. L'ex dipendente di Fiat Risorse Umane che ha parlato con il reporter ha confermato che le conversazioni erano monitorate. Non si sa che fine abbiano fatto i registri delle conversazioni.
Nella struttura del colonnello Klein, c'era una carica specifica per "indagini" tra le posizioni amministrative dell'azienda, secondo un documento del novembre 1980 intitolato "Statistiche, posizioni e stipendi", trovato nell'archivio storico della casa automobilistica a Torino. L'organigramma indica che quattro persone erano sotto il comando diretto di Klein. Lo stesso documento mostra l'ampiezza impressionante dell'apparato: 141 persone rispondevano al capo della vigilanza della Fiat, Mauricio Neves, numero due nella gerarchia della sicurezza, il braccio destro di Klein. Erano 145 spie.
Un'altra tattica era quella di dare ai dipendenti la possibilità di indicare persone per nuove assunzioni. Colui che indicava, sarebbe diventato corresponsabile per il nuovo collega. Una sorta di sorveglianza condivisa con il pretesto di rendere l'ambiente più familiare. E, ovviamente, l’adesione al sindacato sarebbe stata la fine della possibilità di qualsiasi promozione professionale.
Le rappresaglie contro i lavoratori seguivano un modello standard. Quelli identificati come pericolosi venivano arrestati con qualunque pretesto, di solito accusati di furto di parti e attrezzi, e successivamente licenziati per giusta causa. Un caso emblematico è stata la persecuzione subita da Ézio Sena Cardoso. Quando entrò a far parte della Fiat nell'ottobre 1976, Cardoso aveva 14 anni di esperienza come tecnico elettronico in altre società. Alla Fiat entrò come meccanico di manutenzione elettrica per macchine specializzate.
"Arrivava, fermava un lavoratore e diceva: ‘Sei in arresto’. Metteva il ragazzo in macchina e lo portava al capanno della sorveglianza. Arrivava là e c’era questo colonnello."
Militante politico, Cardoso venne arrestato quattro volte. Il primo di questi all'età di 17 anni, durante una manifestazione alla porta di Mannesmann, una società per cui neppure lavorava. Alla Fiat, si è attivato per la mobilitazione dei dipendenti, anche se, a causa delle differenze politiche, dice, non è mai stato nel consiglio sindacale.
Fu uno dei lavoratori che si trovarono nell'ufficio del colonnello Klein. L'ex lavoratore ci ha descritto la proposta che gli fece Klein: un anno di "scambio professionale" in Germania e in contropartita "dimenticare questa storia del sindacato". Ha detto di no.
Giorni dopo, venne richiamato nella sala di sicurezza: fu licenziato per giusta causa. Motivazione: autore di manifesti falsi contro la compagnia. Cardoso ha negato il fatto, fino a riuscire a ottenere che il suo avvocato chiedesse al giudice un esame grafico per certificare la paternità dei volantini. Il risultato della perizia fu decisivo: la calligrafia non era sua. "Qualcuno all'interno della Fiat ha copiato la sua calligrafia da dei documenti di lavoro e prodotto i manifesti", afferma l'avvocato Márcio Augusto Santiago. Cardoso non è stato riammesso, ma ha ottenuto un risarcimento.
L'Inferno di Lagoinha
Michel Le Ven è un prete francese che vive oggi nella regione metropolitana di Belo Horizonte e soffre di una malattia degenerativa. E’ uno dei tre religiosi del suo paese arrestati dalla dittatura brasiliana nel 1968, anni prima dello sciopero della Fiat. I militari stavano tenendo d'occhio Le Ven a causa del suo interesse per il movimento operaio.
Rilasciato dopo anni, Le Ven indagò sull'ambiente di lavoro in Fiat durante la dittatura. Nella sua ricerca dell'Università di San Paolo, che ha portato a una tesi di dottorato difesa nel 1988 ma mai pubblicata, ha raccolto testimonianze anonime dai lavoratori dell’azienda. Intercept ha ottenuto la tesi inedita dalla sua famiglia. “È un sistema militare con gerarchia e tutto il resto. E’ comandato da un colonnello e un tenente. È totalmente repressivo. All'uscita dalla fabbrica, il lavoratore viene perquisito e umiliato come se fosse un delinquente. Se protesta, viene minacciato e il suo numero annotato dalla sicurezza ", ha detto una fonte al ricercatore.
Un'altra testimonianza, anch'essa anonima, parla della sala di sorveglianza. “Avevo un posto in Fiat per arrestare all'interno della fabbrica. Proprio come in strada. Arrivava, fermava un lavoratore e diceva: "Sei in arresto". Metteva il tizio in macchina e lo portava al capanno della sorveglianza. Arrivati lì, c’era questo colonnello. Era un carnefice. "
I più temuti, tuttavia, erano i dipendenti con le tute impeccabili.
Le informazioni raggiungevano il centro di sicurezza Fiat in due modi: oltre agli infiltrati, c'erano anche i doppi agenti. Erano i lavoratori che arrivavano nella stanza di sicurezza della Fiat come sospetti di sovversione e se ne andavano con la promessa di promozione o stabilità professionale se avessero denunciato i loro colleghi. Fingevano di essere alleati sindacali, trasmettevano informazioni irrilevanti ai colleghi, ma in realtà spiavano per il colonnello. I più temuti, tuttavia, non erano i colleghi conosciuti ma i convertiti. Erano i lavoratori con le tute impeccabili.
Non avevano amici, nessun rapporto con i lavoratori comuni. Le loro tute non avevano nemmeno una chiazza di petrolio. Era come se non avessero mai lavorato in vita loro. Erano agenti Dops vestiti da operai.
Circolavano in uniforme in tutta l'azienda raccogliendo informazioni dai dipendenti e alle riunioni sindacali - all'interno o all'esterno della fabbrica. All'inizio passarono inosservati. A poco a poco, iniziarono a essere scoperti dalla gente. “Andavano in coppia, con la divisa verde del controllo di qualità, che gli garantiva libero accesso all'intera fabbrica. Ma il personale addetto al controllo qualità non sapeva chi fossero. E quell'uniforme sempre pulita e impeccabile era strana ... ”, afferma Antonio Luiz Vasco, che si unì alla Fiat nel 1978.
"Senza notizie dell'operaio nel corso della sua detenzione illegale, la madre di Onofre andò alla porta della fabbrica per sapere se qualcuno avesse avuto informazioni su suo figlio."
Un giorno Vasco e altri due colleghi decisero di smascherare un gruppo di agenti sotto copertura alla porta della caffetteria. "Siamo sgattaiolati da dietro e abbiamo gridato" vergogna! "Hanno immediatamente battuto in ritirata! Da quel momento, non sono mai più tornati in fabbrica ", ha detto, ridendo al telefono.
Vasco dice che dopo l'episodio, lui e il suo collega José Onofre de Souza erano seduti in cortile quando furono chiamati a "testimoniare" nella stanza della sicurezza. “Era una normale stanza d'ufficio. Hanno scattato la foto, hanno raccolto la nostra testimonianza, come se fosse una stazione di polizia", dice Onofre, un uomo alto e forte, con una parlata ferma e chiara, in una casa incompiuta a Nova Lima, un'area metropolitana di Belo Horizonte, dove vive grazie alla sorella. I due lasciarono la stanza e poco dopo gli agenti entrarono nella fabbrica e scomparvero con Onofre. "Mi hanno portato a Lagoinha".
Era il quartiere di Lagoinha, dove sin dagli anni '50 c'era una prigione per arresti provvisori. Durante la dittatura, molti detenuti sono stati imprigionati per giorni senza essere registrati. Erano i politici scomparsi. Il luogo era soprannominato "Deposito degli arrestati" e "Inferno di Lagoinha". "Sono rimasto lì per due o tre giorni", ricorda Onofre. “Non mi hanno interrogato, non hanno registrato, né altro. Non mi hanno picchiato, ma neanche mi hanno trattato bene."
Senza notizie dell'operaio durante la sua detenzione illegale, la madre di Onofre andò alla porta della fabbrica per scoprire se qualcuno avesse avuto informazioni su suo figlio. “Abbiamo chiesto ai capi dove si trovava e hanno detto che era stato licenziato per essere stato sorpreso a rubare. Ma tutti sapevano che era una bugia ”, ha detto Vasco, ricordando la madre.
La Fiat partecipava anche alle riunioni dei lavoratori. I reporter hanno trovato un documento formale dell'azienda che dimostra la partecipazione ad almeno una riunione del movimento sindacale. Il documento contiene il rapporto su un incontro chiuso di lavoratori di varie categorie tenutosi presso il Collegio Santa Maria Rita a Belo Horizonte. Tra i circa 50 presenti, secondo il documento, c'era un ex dipendente della Fiat identificato come Enilton Simões. "La presenza dell'ex dipendente della Fiat è stata ben accolta dal vertice dell'assemblea, che lo ha immediatamente nominato membro del comitato formato lì", riferisce il documento.
Il documento afferma che Simões, parlando con i presenti, ha chiesto se c'erano dipendenti Fiat che potevano segnalare come la polizia ha agito all'interno della fabbrica. “A tal proposito, lo stesso, a nome dell'Unione Betim, ha dichiarato che se ci fossero rappresentanti dei lavoratori della Fiat dovrebbero farsi avanti per riferire ai dipendenti dell’azienda la procedura degli agenti di polizia all'interno della fabbrica ”, afferma il documento del 19 aprile 1979.
Il rapporto è stato trovato dai reporter tra documenti microfilmati che sono ora protetti nell'archivio pubblico di Minas Gerais. Il materiale fa parte di un pacchetto di 97 rotoli di microfilm del Coordinamento della sicurezza generale, Coseg, l'agenzia estinta della polizia civile di Minas Gerais che ha ricevuto documenti da Dops-MG.
Dopo qualche tempo di funzionamento, il dispositivo di sorveglianza in Brasile ha manifestato gratitudine per il metodo. Anni dopo, il presidente generale della Fiat Giovanni Agnelli tornò in Brasile e lodò profusamente il colonnello Joffre Mario Klein.
Il buon lavoratore: "Singolo, apolitico, vive in affitto"
Lo spionaggio della Fiat in Brasile veniva occultato e non usciva nessuna notizia sulla stampa nazionale, ma venne denunciata sui giornali italiani. Seduto nella cucina del suo appartamento a Torino, l'ex sindacalista Antonio Buzzigoli ha ricevuto il nostro reporter per prendere un caffè che è durato un'intera mattinata. Ha seguito il caso negli anni '70. "Sono stato a Rio de Janeiro e Betim tra il 26 settembre e il 4 ottobre 1979 per seguire i movimenti di sciopero e le condizioni in cui la Fiat ha operato in Brasile", ha detto l'ex rappresentante della Federazione dei metalmeccanici d'Italia.
Dopo essere tornato in Italia, Buzzigoli ha pubblicato un rapporto in cui denunciava l'esistenza di una "polizia interna armata" in fabbrica. Il gruppo era composto da persone formate da "un italiano e da un brasiliano", il cui compito era quello di esercitare una pressione psicologica sui lavoratori. Questi agenti controllavano tutto: "i servizi igienici, le sale da pranzo e giravano tutto il giorno all'interno degli uffici", ha detto. Il documento citava anche la regolarità con cui la polizia militare entrava nella fabbrica. All'epoca, Buzzigoli rilasciò interviste ai giornali italiani su ciò che aveva visto, ma niente di tutto questo ha avuto una eco in Brasile.
Carlo C. era considerato "sovversivo" per il suo passato nel Partito Comunista Italiano.
In Italia, la società è stata portata in tribunale dopo le indagini del procuratore Raffaele Guariniello. Nel tentativo di mettere a tacere il caso, la Fiat è riuscita a trasferire il caso a Napoli, nel sud del paese, dove i casi avevano più probabilità di essere "risolti": i tribunali erano inquinati da funzionari corrotti, in conseguenza dell'infiltrazioni mafiose. Ciò nonostante, tutte le persone coinvolte nel caso sono state condannate per corruzione e violazione della privacy: trentasei persone, tra cui cinque dirigenti della Fiat e un capo anziano del quartier generale della polizia locale. Ma non Agnelli; non è stato nemmeno denunciato e quindi non ha dovuto rispondere per lo spionaggio nell’azienda che gestiva. Nessuno venne arrestato e tutti i crimini prescritti.
Con la conclusione del caso, l’archivio italiano in possesso dei fascicoli del caso hanno chiesto alla società di riprendersi i 150.000 che erano stati raccolti dall'accusa, circa metà della raccolta originale: il motivo era la mancanza di spazio. Oggi, non si sa dove siano finiti tutti, il che rende impossibile produrre nuove prove contro l'azienda in tutto il mondo. Intercept ha avuto accesso all’archivio del tribunale di Napoli ed ebbe accesso al processo italiano. Alcuni fascicoli tra i documenti erano scomparsi.
I documenti rivelavano la pervasività dello spionaggio aziendale sui dipendenti. Sotto la voce di "note informative", le schede mostravano la situazione familiare, economica, i precedenti penali e politici, l'orientamento politico e la reputazione pubblica, compresi quelli dei familiari direttamente collegati agli indagati. Uno dei fascicoli trovati era quello di Salvatore B.: "celibe, apolitico, vive in affitto in un modesto appartamento con la sorella, nubile, lavoratrice, apolitica, di buona condotta morale e civile". Salvatore era considerato "idoneo" per lavorare nello stabilimento di Torino.
Carlo C., invece, pur non avendo trascorsi con la polizia e "avendo una buona condotta morale e civile", era considerato "sovversivo" a causa del suo passato nel Partito Comunista Italiano, il PCI. La ricerca su C. fu ampia: due pagine che descrivevano la sua vita: dalla frequentazione della chiesa, agli anni degli studi universitari, fino all'entrata nel PCI. La nota descrive anche l’adesione del padre alla Democrazia Cristiana, e della madre e sorella, iscritte all'Azione Cattolica.
'Sospettata di lavorare nella prostituzione.'
I faldoni sulle lavoratrici riflettono la cultura “machista” italiana dell'epoca. Per Angela O., gli investigatori non si sono risparmiati in offese. La sua vita è stata pervasa dagli agenti della Fiat che hanno raccontato come lei sia stata sfrattata due volte per mancato pagamento dell'affitto, e che attualmente viveva in un piccolo appartamento con sua madre e due figli, uno dei quali aveva un grave problema di salute. La nota prosegue affermando che “l'interessata (Angela) da oltre un anno aveva una relazione con un ex detenuto fallito. Ciò ha messo in discussione la sua condotta morale, dato che i bambini provengono da genitori diversi e che lei aveva una relazione con un cittadino tedesco ricercato dall'Interpol.
Le note continuano con il dettaglio su vari momenti della sua vita. “Ha lavorato come cassiera e per un periodo è stata vista vagare per le strade di Milano per ragioni poco chiare. Da parecchio tempo non lavora, conduce una vita dubbiosa e torna a casa tardi.” A questo punto, gli investigatori traggono le loro conclusioni. "Sospettata di lavorare nella prostituzione."
Durante la stesura di questo rapporto, non siamo stati in grado di scoprire se la Fiat Brasile schedasse i lavoratori così meticolosamente come ha fatto il quartier generale in Italia. In tal caso, si dovrebbe sapere che fine hanno fatto quegli archivi di spionaggio privato. Probabilmente furono bruciati, così come molti documenti del periodo.
La Fiat del Brasile è stata avvicinata due volte da Intercept. All'inizio, nell'aprile 2018, si limitò a dire: “Abbiamo consultato varie fonti dell'azienda, ma in realtà non c'è registro di tali fatti. Ecco perché la società preferisce non commentare.” Abbiamo contattato nuovamente Fiat Brasile nel febbraio di quest'anno [2019] e la risposta è stata la stessa. Anche a fronte di domande precise inerenti la nostra indagine, ha rifiutato di disponibilizzare personale per le interviste. Dal suo lato, la Fiat italiana ha dichiarato: “Per quanto riguarda la parte brasiliana, i colleghi brasiliani vi risponderanno, poiché so che siete già in contatto con loro. Per quanto riguarda le questioni inerenti l'Italia, non abbiamo commenti da fare, perché sono cose ben note che sono state riportate sui giornali in molte occasioni negli ultimi decenni e sulle quali sono stati scritti anche dei libri”.
Link all'articolo originale https://theintercept.com/2019/02/25/espionagem-enriqueceu-fiat-brasil/
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