Sandro Mezzadra*, Stefano Rota - Associazione Transglobal
Di cosa parliamo quando usiamo il termine estrattivismo? Riprendendo il percorso di analisi altrove sviluppato in maniera più completa da S. Mezzadra e B. Neilson, l’estrattivismo è definibile come l’ambito delle operazioni di capitale che, partendo dalle forme più tradizionali legate alle attività minerarie e di business agricolo – le cui radici risalgono agli albori dell’era coloniale -, si espandono ad altri settori apparentemente lontani da quelle due attività primarie. Questi nuovi ambiti, tuttavia, condividono con le pratiche estrattive intese in senso letterale le logiche di funzionamento e il rapporto con l’ambito in cui l’operazione avviene, sia esso rappresentato da un territorio, da dei corpi o da forme di cooperazione sociale. Non c’è dubbio, quindi, che le operazioni estrattive at large ricoprano un ruolo predominante e strategico all’interno del biocapitalismo contemporaneo.
Il tema dell’estrattivismo si è riproposto con forza nell’ultimo decennio soprattutto in relazione alle politiche adottate e ai conflitti che ne sono seguiti in America Latina. Non a caso, si è soliti parlare, con riferimento a quelle politiche, di “neo-estrattivismo”, riferendosi a un rapporto tra politiche socio-economiche (il desenvolvimentismo, o “sviluppismo”, brasiliano, ad esempio), da un lato, e ambiente, diritti delle popolazioni che lo abitano ed equità sociale, dall’altro. L’agenda di questo rapporto viene compilata mantenendo come riferimento azimutale le trasformazioni del capitalismo globale, a cui non si sono certo sottratti i governi “progressisti” della regione. L’inserimento di quest’ultima all’interno del sistema produttivo globale, favorito dalla crescente domanda di alcune commodities, ha indubbiamente dato un’accelerazione a pratiche estrattive che si volevano inizialmente finalizzate, almeno in parte, al finanziamento di politiche sociali e alla creazione di forme di auto-governo “popolare”. La storia attuale ci presenta, però, uno scenario molto diverso, con la contrapposizione netta e violenta da parte delle popolazioni indigene, e non solo, che tali politiche subiscono pesantemente, in quasi tutti i paesi del continente. In poche parole, si è riproposto un rapporto tra estrazione di materie prime, commodities e benefici da esse derivanti, da un lato, e territorio, i suoi abitanti con le loro peculiari esigenze e problematiche, dall’altro, per niente diverso da quello che ha storicamente connotato la regione.
Inutile dire che il discorso è trasferibile in buona parte nel continente africano, dove land grabbing, saccheggio delle risorse del sottosuolo e uso semi schiavista della popolazione impiegata è all’ordine del giorno in molti paesi.
Come è già stato detto, l’analisi delle operazioni estrattive del capitale non può essere limitata alle attività che definiscono queste pratiche in senso letterale. Al contrario, può e deve espandersi ad altre sfere di attività umana ed economica che negli ultimi anni hanno connotato in modo sempre più marcato la vita dei cittadini, intesa come “luogo” di produzione totale e continua. Estendere l’ambito d’analisi in modo da evidenziare le operazioni estrattive in altri ambiti conduce a fare i conti direttamente con i processi di dispiegamento e crisi della finanziarizzazione dell’economia e con la logistica come strumento per la sincronizzazione e coordinamento dei movimenti di beni e persone.
La necessità e l’urgenza consistono oggi nel riuscire a connettere le forme di lotta sopra menzionate con quelle che sempre più invadono e mettono in discussione queste altre aree centrali nell’attività capitalistica avanzata e le sue attuali forme di dominio e sfruttamento.
Nonostante la ferma consapevolezza dei problemi di traduzione e traducibilità nel creare una simile connessione, è necessario individuare il modo attraverso cui la nozione di estrazione fornisce un mezzo per mappare e unire le lotte che si dispiegano in contesti apparentemente distanti e non correlati tra loro.
La contiguità di tali contesti viene evidenziata in primo luogo dalla terminologia che descrive le operazioni che si svolgono nelle aree a più elevato sviluppo e che le accomuna a quelle dell’estrazione in senso letterale (data mining, gold farming, criptomonete). Allo stesso tempo, la forma di “rendita” che assume il profitto, sotto la spinta dei processi di finanziarizzazione dell’economia, si articola con pratiche produttive più tradizionali, strettamente legate allo sfruttamento industriale del lavoro vivo per la realizzazione del profitto.
Consideriamo due esempi piuttosto diversi tra loro di queste nuove forme di estrazione.
Nel caso delle criptomonete come i bitcoin, l'immagine della miniera si applica a processi di risoluzione di crittografia e di verifica delle transazioni che comportano l'emissione di nuovi bitcoins. La metafora del settore minerario si adatta a tale ambito perché la creazione di bitcoin è intrisa di una densità dinamica economica e tecnologica che richiama le operazioni di estrazione.
Un altro significativo riferimento all'estrazione all’avanguardia nel capitalismo digitale si trova nell'area in rapida espansione del gioco come forma produttiva. In alcune regioni della Cina, così come in altre parti del mondo, migliaia di giovani migranti lavorano attraverso il gioco. Passano ore e ore in laboratori di fronte a computer e sotto il controllo dei loro capi. Questi lavoratori-giocatori si specializzano in diversi giochi per estrarre punti o valuta da gioco, da vendere ad altri giocatori che sono esterni a questo “giro” che produce punti. Questa attività si chiama "Gold Farming", con un riferimento diretto, quindi, a forme tradizionali di estrazione di metalli preziosi.
Da questo punto di vista, l'estrazione non implica solo l'appropriazione e l'espropriazione delle risorse naturali, ma anche, in modo sempre più marcato, processi che attraversano modelli di cooperazione umana e attività sociale.
Il fronte produttivo dell'attività di data mining si amplifica a dismisura negli ambienti urbani. Tendendo ad agevolare forme di governance che rendono la città un luogo privilegiato di accumulazione, queste tecnologie si sono sviluppate in modo tale da divenire sempre più intrecciate con lo sviluppo impetuoso della logistica.
Ciò diventa particolarmente chiaro quando si considerano la logistica e la finanza all’interno dell'analisi che sottolinea la dimensione estrattiva delle operazioni del capitale anche in questi settori, soprattutto in ragione del fatto che la logistica arriva a comprendere la gestione della catena di approvvigionamento, l'organizzazione del lavoro e la ridefinizione degli stili di vita.
Le operazioni logistiche non solo testano e rimodellano i rapporti tra produzione e distribuzione, ma hanno anche una dimensione chiaramente estrattiva. Ciò che entra in gioco qui è la relazione tra il coordinamento logistico delle catene di distribuzione e il cambiamento dei processi di produzione. Contrariamente alla situazione tradizionale del capitalismo industriale, oggi ci troviamo di fronte a numerosi casi che dimostrano una chiara tendenza alla prevalenza delle operazioni logistiche su specifici processi di produzione materiale. Due giganti della logistica come Walmart e Amazon, ad esempio, spingono i produttori delle merci che distribuiscono ad abbassare i costi di produzione: tali produttori, quindi, si sentiranno autorizzati a utilizzare qualunque mezzo per mantenere i prezzi al minimo e potersi avvalere delle reti di distribuzione enormi di quelle due strutture. In questo processo, le operazioni logistiche mostrano una chiara dimensione estrattiva, formando e determinando dall’esterno ambienti produttivi eterogenei.
Tra queste eterogenee operazioni di capitale, la finanza svolge un ruolo fondamentale nell'organizzare e modellare il funzionamento delle catene di distribuzione, tanto quanto l’ambito globale della produzione.
Tra i processi contemporanei di finanziamento ricoprono un ruolo determinante strumenti come i mutui subprime, i derivati e l'emergere di tecniche di scambio ad alta frequenza basate su forme specifiche di data mining e di accordi logistici.
All’interno di questo quadro, diviene immediatamente possibile individuare e valutare i modi in cui la finanza è attualmente caratterizzata dalla prevalenza di ciò che chiamiamo operazioni estrattive. La finanza stessa può essere definita rigorosamente, citando un recente libro di Durand (2015, p. 187, nostra traduzione), come "un accumulo di diritti di prelievo (droits de tirage) sulla ricchezza da produrre in futuro, attraverso l'indebitamento pubblico e privato, la capitalizzazione in borsa e un ampio ventaglio di prodotti finanziari ". Il debito, quindi, assume una posizione sempre più centrale nell’analisi del funzionamento del capitale.
Tutto quanto è stato detto finora ci porta ad affrontare con qualche strumento in più il tema del rapporto tra logistica, finanziarizzazione e pratiche estrattive, da un lato, e organizzazione, gestione dei flussi migratori, dall’altro.
Indebitamento, infrastrutturazione e finanziarizzazione sono tre sostantivi che connotano il mondo delle migrazioni in senso lato, ma con una particolare incisività sui movimenti asiatici e con un livello variabile di “legalità”.
Partiamo dall’indebitamento. La definizione sopra riportata di “diritto di prelievo” sembra essere immediatamente applicabile al fenomeno migratorio in una vastità di casi. Solo per fare due esempi, dall’organizzazione dei viaggi per le giovani donne nigeriane da avviare alla prostituzione nei paesi europei e in Italia in modo particolare, alla ricerca di fondi per dare avvio al percorso migratorio, il cui terminale è costituito, in alcuni casi, da organizzazioni comunitarie di appartenenza nei paesi di destinazione. L’indebitamento si accompagna, altra similitudine a quanto descritto sopra, a forme di sfruttamento del lavoro vivo, sia esso rappresentato dalla prostituzione, sia all’interno di attività produttive e commerciali, estendendosi all’ambito riproduttivo, in particolare per quanto riguarda l’alloggio.
HD Momin, un ragazzo bangladese con lo status di rifugiato, incarna totalmente questo modello che interessa la maggioranza dei migranti dal subcontinente indiano arrivati negli ultimi anni. Una volta ottenuto lo status, si aspettava di poter lavorare in modo più decoroso rispetto ai quasi due anni trascorsi come richiedente asilo e di poter cominciare a studiare italiano. Al debito contratto per poter affrontare il viaggio si è aggiunto, da quando è uscito dal sistema di accoglienza, un affitto alto per un posto letto che il suo datore di lavoro gli fornisce, il quale gli paga le dieci ore di lavoro giornaliere con 500 euro mensili. Dovendo inviare anche soldi alla sua famiglia, a sua volta indebitatasi per l’acquisto di beni da pagare con le rimesse di Momin, il suo debito non solo non diminuisce, ma tende ad aumentare.
Il migrante si connota da subito, quindi, come un soggetto indebitato.
Logistica e finanziarizzazione sono gli altri due elementi che connotano il fenomeno migratorio, riassumibili dentro la definizione di infrastrutturazione delle migrazioni, e intimamente legati alla condizione di indebitamento.
Con il termine infrastrutturazione delle migrazioni si intende, come hanno descritto Xiang Biao e Johan Lindquist nel loro Migration Infrastructure, l’interlacciamento tra le azioni di varie infrastrutture che, operando a livello transnazionale e in modo autoriproduttivo, garantiscono una forma di “successo” del progetto migratorio. Consentono infatti di arrivare là dove il singolo individuo difficilmente avrebbe accesso e gestiscono in toto la vita del migrante all’estero, attraverso un sistema di costrizioni e ricatti da cui è difficile, se non addirittura impossibile, prescindere.
Il funzionamento del sistema infrastrutturale appare in tutta la sua forza in questo brano tratto dall’intervista a due ragazze filippine Jackie e Juvi, contenuto nell’articolo Nel ventre del Drago, in Il tempo dei migranti.
Juvi: Quando ho deciso di partire ero ancora minorenne, quindi non potevo. […] Ho fatto un nuovo certificato di nascita con un anno in più. Ho fatto domanda in molte agenzie di recruitment specializzate per lavoratori che vogliono andare a Taiwan. Ma funzionano anche per altri paesi, soprattutto i paesi del golfo.
Mi hanno convocata: ho dovuto fare un’intervista ed esercizi fisici, per mostrare che ero in grado di sopportare la fatica. Poi ho dovuto fare un controllo medico: se hai il verme solitario non ti prendono, perché i cinesi dicono che se ce l’hai, sei pigra e non lavori. Ho dovuto pagare (nove anni fa) 100 euro per il cambio del certificato di nascita, 25 euro per le visite mediche e 2.500 euro per l’agenzia. L’ultimo passaggio è l’ottenimento di un documento che è siglato tra i due paesi per consentirti di lasciare le Filippine.
Jackie: Dopo, ti fanno fare un corso di orientamento che ti prepara alla vita in Taiwan, ti insegnano le cose principali per chiedere informazioni in cinese e altre cose basiche, che riguardano la vita di tutti i giorni. Il giorno della partenza, ci si incontra in un gruppo all’aeroporto (sono tutti lavoratori che hanno fatto lo stesso percorso). In tutto, ci vogliono oltre due mesi per svolgere il processo.
Jackie: Appena arrivi a Taiwan, ti portano subito all’ospedale, dove ti fanno un check up completo, perché hanno paura che le persone paghino nelle Filippine per passare il test medico. Dopo di che, ti informano qual è il tuo posto di lavoro, ti dicono il nome dell’azienda e ti trasportano al dormitorio. Per arrivare a questo punto, abbiamo speso in tutto 3.500 euro a testa.
Appena arrivati, ci hanno preso i documenti, che restano con l’agenzia. A quel punto, siamo solo dei lavoratori, non siamo più persone con un documento.
Il pagamento avviene tramite l’agenzia di recruitment: ricevono i soldi dall’azienda, che trattiene però una parte, (circa 100 euro al mese) e che ti danno solo a fine contratto. Questo prelievo forzato ha il senso di legare la persona al lavoro e all’azienda, ma anche quello di farti sentire un investitore nell’azienda stessa e, ovviamente, di farti sentire che ti sta aiutando, perché sta risparmiando soldi per te. Sono tre elementi importanti nella nostra cultura, che tutti riconoscono e accettano. Ci fanno sentire una risorsa per il loro capitale. I nostri soldi ci vengono dati alla fine del contratto, senza nessun interesse, anche dopo tre anni, dentro al’aeroporto, non prima. Questo per essere sicuri che non ci si fermi lì oltre la scadenza del contratto.
Non vi è dubbio che quello che mettono in atto le strutture coinvolte in questo sistema è a tutti gli effetti una pratica estrattiva. I corpi, i desideri e le aspirazioni dei/delle giovani migranti sono visti come un terreno da “scavare”, da cui estrarre una rendita garantita dal sistema stesso che si articola su più paesi o continenti.
Se è vero che questo modello è particolarmente sviluppato in Asia, non significa che, con forme magari più istituzionali, non esista anche alle nostre latitudini, operando, però, in senso inverso. Agenzie di recruitment agiscono come mediatori e responsabili per l’arrivo e la sistemazione di lavoratori, all’interno delle operazioni regolate in base all’art. 27 del Testo Unico sull’Immigrazione. Si tratta di agenzie accreditate che, nei paesi riconosciuti dal governo italiano, operano una prima selezione, organizzano la formazione professionale e l’apprendimento della lingua italiana, trasferiscono i lavoratori in Italia e li collocano nelle aziende loro clienti, presso le quali sono responsabili dell’intero processo.
Un modus operandi, peraltro, già richiamato da Ken Loach nel film del 2007 In questo mondo libero.
Esiste un’altra pratica estrattiva operata sui migranti, che si espleta in forme di estrazione culturale selettiva. Quello che si intende sostenere è che le strutture di potere regolano le diverse forme di inclusione operando selettivamente sulla superficie descritta dalla trama di elementi culturali che compongono la complessa relazione tra identità e soggettività, tanto nella dimensione individuale, quanto in quella collettiva. Tale pratica tende a “mettere a valore”, sottraendoli alla complessità a cui appartengono, gli elementi culturali che, dentro a quel rapporto di potere, incarnano più chiaramente il suo riconoscimento e interiorizzazione, come conseguenza dei processi di assoggettamento e soggettivazione dei corpi.
Queste azioni si avvalgono di pratiche traduttive rigorosamente monodirezionali, escludendo quanto appartiene all’intraducibile e quindi non assoggettabile. Vengono create in questo modo rappresentazioni identitarie totalmente funzionali alla riproduzione del sistema di norme che sancisce l’accettabile e il suo contrario, creando spesso forme conflittuali intracomunitarie, che definiscono delle gerarchizzazioni fondate su quel modello traduttivo.
“I migranti che sono qui da molti anni ci guardano dall’alto in basso, perché si sentono che vivono come gli italiani”, dice Ali Can, un ragazzo curdo che partecipa alle attività del Laboratorio 53, a Roma.
I dispositivi di ordinamento, nel momento in cui vengono interiorizzati nella dimensione psichica, producono una forma di sottomissione più profonda delle costrizioni fisiche nel piano simbolico; producono un “attaccamento appassionato”. E’ attraverso questo attaccamento che il riconoscimento di quanto ci appartiene – o ciò a cui noi apparteniamo – assume la forma di atto preconoscitivo, staccato dalla comprensione, un “atto muto” (A. Ghosh, 2017, pag. 11).
A quasi trent’anni di distanza dal suo arrivo in Italia, Ejaz ricorda così la sua esperienza: “Ho passato i primi anni a cercare di costruire un’identità che fosse il più adeguata possibile a quello che stavo vivendo. Quando tornavo in Pakistan, mi veniva voglia di criticare i miei genitori e i miei amici per il loro stile di vita. Volevo mostrare soprattutto a me stesso e poi agli altri che stavo interiorizzando un nuovo modo di essere”.
L’estrazione culturale selettiva, quindi, produce una nuova rappresentazione identitaria, individuale o collettiva, fondata sull’interiorizzazione delle norme di potere.
Riprendendo quanto è stato detto in apertura di questo articolo, l’estrattivismo si conferma come un’operazione di potere centrale nelle dinamiche del biocapitalismo contemporaneo, per la capacità che ha di nascondersi dietro a norme universalmente accettate: l’indiscutibile necessità dello sviluppo, o l’altrettanto indiscutibile necessità dell’”integrazione”. Fuori da questo sistema non esiste nulla, se non l’intraducibile e quindi inaccettabile vita dei cittadini del “quarto mondo”, la cui voce, però, si fa sempre più forte e insistente.
* Insegna Filosofia Politica all’Università di Bologna ed è visiting professor in molte Università di tutto il mondo, tra cui Sidney, Buenos Aires, New York, Ljubjana. E’ socio fondatore dell’Associazione Transglobal
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