La (in)traducibilità del mondo. Attraversamenti e confini della traduzione

Il libro sarà in libreria a marzo.

 

 

Dall'Introduzione

 

Il tema della traduzione riveste cruciale importanza nella vita dell’Associazione Transglobal - al cui interno nasce l’idea di questo progetto editoriale - e in quella dei suoi soci. Transglobal, infatti, tratta prevalentemente e in modo multidisciplinare il fenomeno migratorio come elemento chiave per l’interpretazione della condizione postcoloniale del nostro presente, delle pratiche inclusione ed esclusione[1], così come delle “operazioni” che connotano l’azione del capitale a livello globale.

I suoi soci che svolgono attività di mediazione linguistica-culturale o di supporto pratico alla moltitudine dei richiedenti asilo e rifugiati vivono quotidianamente il rompicapo della traduzione e il limite che la connota.

 

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Ejaz Ahmad, socio fondatore di Transglobal e mediatore culturale di esperienza ventennale, riferisce il suo vissuto di traduttore e di redattore del giornale Azad (in lingua Urdu) nei seguenti termini: “se io traduco letteralmente, non ha nessun significato. Se io voglio tradurre matrimonio, che in Urdu è shadi, non è sufficiente. Per noi shadi è il matrimonio combinato e significa solo questo. Lo stesso vale per la parola libertà. Nella nostra cultura, molte volte il termine libertà è interpretato come volgarità. […] Tradurre una guida medica di ginecologia, è molto difficile. Da noi non si può parlare della sessualità. Come ti dicevo prima, esistono linguaggi separati tra uomini e donne. Mantenendo il rispetto per la religione e per la cultura pakistana, bisogna tradurre in modo che un lettore legga quello che traduco. Io ho di fronte tre linguaggi in urdu: quello degli uomini, quello delle donne e quello della famiglia. Quando traduco, devo usare il linguaggio che tenga conto di queste differenze”. Come tradurre, quindi, lasciando in gioco queste differenze evitando che si cristallizzino? Davvero un bel rompicapo. Frassinelli offre una possibile chiave di lettura: “le lingue, e dunque le persone che le parlano e i testi in cui sono scritte, sono di per sé plurilingue. Di qui l’importanza della traduzione e del suo agente, la traduttrice, per la comprensione dell’idea della lingua come ‘molte in una’, che mettono in rilievo grazie alla loro posizione e soggettivazione linguistica” (Frassinelli, 2015, p. 148).

 

La figura deleuziana dell’”intercessore” di cui parla Daniela Angelucci ancora nel suo contributo a questo volume aiuta “a chiarire e arricchire l’idea di scrittura, e di traduzione, come deterritorializzazione e concatenamento”. Nel momento in cui Ejaz traduce l’italiano in Urdu produce una deterritorializzazione orizzontale della lingua e dei concetti trattati; questi entrano in e producono un “concatenamento”, in cui la molteplicità “che appare in chi parla, scrive, agisce, traduce, non viene rappresentata in una mediazione, quanto piuttosto può emergere solo nell’incontro e nello scambio, in una congiunzione, in un rapporto di paratassi: intercedere significa attuare un concatenamento”. Viene quindi usato uno strumento che, sempre utilizzando il contributo di Daniela Angelucci, possiamo definire una “traduzione minore”: riprendendo in nota (n. 10) la definizione di M.C.A. Vidal Claramonte, Angelucci ci spiega che la “traduzione minore […] tiene conto delle deterritorializzazioni e asimmetrie tra le culture, e capisce che il traduttore è un cartografo”.

 



 

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