L’anziano giornalista Pereira, il personaggio del celebre romanzo di Antonio Tabucchi, decide di passare una settimana in una clinica di talassoterapia a Coimbra, per cercare di arginare il turbamento provocatogli dagli articoli che gli presenta il giovane Monteiro Rossi, contrattato per scrivere necrologi sul giornale Lisboa, dove il giornalista lavora. Sono articoli che Pereira non può pubblicare: il regime salazarista (il romanzo è ambientato nel 1938) attua una serrata censura su tutto quanto viene pubblicato, e ciò che Monteiro scrive va ben al di là del limite che quella censura impone. Il medico Cardoso, vecchio amico di Pereira, dopo aver ascoltato le ragioni che lo hanno spinto a rivolgersi alle sue cure, gli si rivolge invitandolo a “frequentare il futuro”.
Il futuro si può frequentare? È possibile vivere il futuro, che lo si voglia vedere in chiave utopica, distopica o eterotopica? La recente riscoperta di quella frase di un romanzo letto molti anni fa ha prodotto un’accelerazione del desiderio di provare a sistematizzare alcuni pensieri che erano sorti in seguito alla frequentazione di un interessante ciclo di incontri promossi e molto ben gestiti da Luisa Stagi nel novembre scorso a Genova, a cui ha dato il titolo “Il futuro alle spalle”.
Per non correre rischi, dichiaro subito con fermezza che non ho una risposta definitiva alla domanda che mi sono posto e che ha tagliato trasversalmente il ciclo seminariale. Quello che mi interesserebbe provare a fare è articolare una provvisoria interpretazione del significante futuro in relazione al tempo e non solo, da cui trarre auspicabilmente alcune indicazioni che possano aiutarmi a dare almeno un accenno di risposta alla perfida domanda. Ma sarò già nel futuro rispetto alle righe che stanno comparendo ora, una dopo l’altra, sul mio schermo.
Parto da qui: il futuro ha una essenza intensiva, di cui si può fare solo un’esperienza extra-ordinaria, un’esperienza che presuppone una modalità relazionale con individui, cose, passioni, immagini che lascia traccia come sensazione incorporea. Intensiva significa che, a differenza del passato, non posso averne una rappresentazione estensiva, minuto per minuto, anno per anno, divisibile e ricomponibile a piacere fino all’infinito. Il futuro, collocandosi oltre l’istante in cui scrivo questa parola e quest’altra ancora, è indivisibile cronologicamente sulla base della mia esperienza che non è ancora avvenuta. Non potendone fare esperienza, posso solo mettermi nell’ottica della sperimentazione, o dell’”esperienza non ordinaria”.
Nel momento in cui decido di sperimentare il futuro pongo le basi per un modo di relazione con tutto ciò che mi circonda, appartenente alla vita a cui anch’io appartengo, che ha bisogno di un’altra verità, di un altro “processo di veridizione”. Detto in altri termini, si produce un evento, si rinnovano gli elementi che producono soggettivazione. Sperando di non aver interpretato male, mi sembra sia di questo che Vincenza Pellegrino ha parlato nel primo degli incontri organizzati da Luisa, quando ci ha raccontato della sua interessante esperienza dei Future Labs. Non si tratta solo di immaginare, ma di “conquistare” il futuro adesso, se ne siamo capaci, facendone oggetto di una ricerca basata su un “empirismo trascendentale” che, prendendo le parole di Paolo Godani nel suo libro Deleuze, consente di “conquistare di volta in volta le condizioni alle quali qualcosa di impensato, di insensibile, di immemorabile, di inimmaginabile possa venire pensato, percepito, ricordato, immaginato” (p.71).
“Se penso al futuro mi viene ansia, angoscia”: una delle risposte ricorrenti se chiediamo a bruciapelo ad amici e conoscenti cosa pensano del proprio futuro. Sono emozioni che indicano una presenza, una tensione verso il potere della conquista, che non riesce a tradursi in potenza della conquista, per riprendere la felice distinzione proposta da Bifo nel suo intervento allo stesso ciclo seminariale. L’ansia, la paura, l’angoscia, nel momento in cui si manifestano rispetto al non ponderabile con le categorie dell’esperienza, evidenziano, riprendendo ancora il libro su Deleuze di Godani, la condizione di “separati da ciò che si può”, o, in altri termini, “impediti nella sperimentazione e nella conquista di una potenza” (p. 97). Felicità e tristezza, gioia e paura non sono quindi antinomici o reciprocamente autoescludenti: sono due modalità relazionali con ciò che viene percepito come possibile.
Ritornando a Pereira, mi sembra che la settimana di cura nella clinica del dottor Cardoso si giustifichi con l’irrompere di quella tensione, di cui non c’era traccia prima dell’arrivo di Monteiro Rossi. Il tragico precipitare degli eventi genera una frattura in una vita con il passato come orizzonte qual è quella dell’anziano giornalista. Il futuro che in quella frattura si insinua mette in moto un’accelerazione del processo che unisce affezione, tracce, immagini. Il corpo di Pereira affetto dall’evento della morte di Monteiro viene marcato da tracce che ne modificano le fattezze nel momento in cui stabilisce un rapporto con corpo senza vita del giovane collaboratore. Sono modifiche che si traducono nella scelta di un’altra identità per poter lasciare il paese: il potere “futurante” di Pereira passa per la produzione di una nuova individualità.
Ma, avverte Deleuze rifacendosi alla “grande identità” Spinoza-Nietzsche (ancora nel libro di Godani), la potenza di conquista non appartiene al singolo individuo. Questo mi sembra essere il punto centrale della condizione di possibilità di vivere il futuro. La non appartenenza di quella potenza di conquista al singolo rimanda a riferimenti importanti della filosofia spinoziana sul concetto di “cose singolari”, viste come la composizione e relazione tra più “cose” o individui, la cui unione sulla base di una comune “ragione” ne fa un “solo corpo o individuo”, come riporta Vittorio Morfino nel suo lavoro, Intersoggettività o transindividualità (p. 95).
Il futuro, come categoria politica, si fa potenza e si conquista solo nelle relazioni tra individui che, in quella relazione, si fanno “un solo corpo o individuo”: questo mi pare essere il punto centrale di quanto sto provando a mettere in ordine. La relazione viene prima dell’individuo, il quale si fa “futurante” solo all’interno di quella relazione. Ma mi sembra ci sia un ulteriore elemento che costituisce la condizione di possibilità per la conquista di potenza che sostituisca l’angoscia con la gioia: la visibilità di quel corpo collettivo.
In un lavoro collettivo tutt’ora in corso, Piero Acquilino mette in evidenza il significato che ha avuto per lui il trovarsi in piazza in una manifestazione di lavoratori, come lui, metalmeccanici. Lo sciopero, come lo descrive Piero, si connota come zona liberata – dal lavoro, dalle gerarchie -, produce altri discorsi tra chi vi partecipa, un altro tipo di socialità da quella che domina nel tempo-spazio della fabbrica. La manifestazione in piazza, nel momento in cui consente di vedersi, abbracciarsi, urlarsi, temporaneamente sottratti alle angustie asfittiche del presente, scatena la potenza dei corpi di produrre, collettivamente e visivamente, il futuro per il quale vale la pena vivere. In uguale misura, o forse ancor più, quella potenza produttiva viene espressa nelle piazze dei FFF, delle donne di Non una di meno, a piazza Tahrir nel 2011, a Gezi Park nel 2013 o a Teheran in questi mesi e così via.
Relazione tra corpi e “cose”, da un lato, e visibilità di quella relazione, dall’altro, indicano una trasmissione, un passaggio di qualcosa. Ciò che passa è sancito dall’entropia, è il calore che va sempre dal caldo al freddo, che produce disordine, complessità: “è la freccia del tempo”, come scrive Carlo Rovelli nel suo affascinante libro L’ordine del tempo. Seguendo, per come posso, il complesso discorso di Rovelli, verrebbe da dire che quel passaggio, nel momento in cui produce disordine e confusione, consente di mettere meglio a fuoco, relativizzandole, la collocazione e la funzione del futuro rispetto al nostro presente. Qui sorge la possibilità farne un’esperienza extra-ordinaria, incorporea, collocato sulla “superficie” di qualcosa di estremamente solido e ancorato alla materialità dell’”intreccio dei corpi”.
Quale risposta abbozzare, quindi, alla domanda che mi sono posto? Forse l’unica possibile è che è una domanda mal posta. Chiedersi se il futuro è frequentabile o se è vivibile è meno interessante di chiedersi quali connotazioni voglio dargli affinché lo possa riconoscere e frequentare. O, detto in altri termini, quanto riesco a tradurre il potere che avverto in potenza, o, ancora, quanta verità sono disposto a mettere in discussione per far spazio a un’altra. Per questi motivi, non mi sento di aderire all’affermazione di un autore che apprezzo molto come Mark Fisher quando sostiene che siamo stati derubati del futuro.
Il futuro non può essere rubato, i rapporti di potere di cui siamo molecolarmente parte in molti modi differenti tendono, e riescono, a non farlo percepire come qualcosa di conquistabile attraverso lo sviluppo della potenza del corpo collettivo che vuole iniziare a vivere ora un nuovo ordine sociale dell’esistente. Ogni volta che occupiamo uno spazio pubblico, che connettiamo emozioni, passioni, lotte viviamo il futuro, il momento del “comune” che ci fa sentire, temporaneamente, liberi.
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