Stefano Rota (introduzione e cura)
Questo piccolo libro ha origini piuttosto lontane. Nel 2001-2003 ho vissuto in una regione remota della provincia di Manica, in Mozambico. Ero responsabile di un progetto di alfabetizzazione in lingua locale (Cindau) e di promozione di microattività produttrici di reddito. Lavoravano con me due linguisti, uno mozambicano, Nelo, e uno francese, Michel. Erano entrambi due grandi esperti di lingue Bantu, e avevano il compito di produrre una grammatica scritta della lingua che, fino ad allora, esisteva solo nella forma orale. Il Cindau ha alcuni suoni molto particolari: i miei colleghi passavano ore a farsi ripetere da tutti coloro che gli capitavano a tiro quei suoni, per cercare di trovare una possibile loro traslazione nella forma scritta. Si tentavano accoppiamenti di consonanti di vario tipo, ma niente soddisfava le elevate esigenze di Neto e Michel.
Un giorno, mi avvicino al loro tavolo e, sbirciando da sopra le loro teste, osservavo i nuovi tentativi di trasferire in un sistema compiuto, quale è una lingua scritta, un suono simile a uno schiocco della lingua e un altro che ricordava una “esse” molto sibilante, prodotta da una particolare posizione del labbro superiore. “Scusate – chiedo – non sarebbe possibile aggiungere sopra alla consonante che più ricorda quel suono (era la kappa, per il primo dei due) un simbolo, come ad esempio una piccola “o” che dia il senso della cavità orale dove si produce quel suono?” Hanno alzato entrambi la testa nella mia direzione e mi hanno guardato come fossi un insetto parlante. “Come si potrebbe trasferire al pc questa tua idea geniale – mi chiede Michel – visto che poi dobbiamo stampare i libri? Abbiamo il vincolo dalla Commissione Europea (fianziatore del progetto) di elaborare un prodotto che sia stampabile e le tastiere che abbiamo a disposizione non contengono “la-kappa-con-sopra-la-piccola-o”, o forse conosci qualche tastiera nuova e non ce ne avevi ancora parlato?” “Vado a fare il caffè”, e lì si è chiuso l’argomento.
Judit Butler, in un passaggio citato nell’introduzione del libro, ricorda che la traduzione può essere solo un continuo processo di “traduzione culturale. Senza, […]il solo modo perché un’asserzione di universalità varchi un confine è l’adesione a una logica coloniale ed espansionistica”.
Ma entrare in questa logica è – per alcuni, soprattutto i finanziatori dei progetti – pericoloso: bisogna accettare di essere ‘tradotti’ - noi produttori dell’’originale’, noi ‘iniziatori’ - “tramite la nostra inclusione nella nuova versione. Ci trasforma”, come scrive Rada Iveković in un suo saggio, anch’esso ripreso nell’introduzione.
Semplificando molto, questi sono i temi che, discussi da varie angolature dagli studiosi e studiose che hanno contribuito alla stesura del libro, danno il senso dell’irriducibilità di un Altro che non riesce a stare neanche scomodamente nel concatenamento macchinico fatto da sistemi di oppressione storica, politica e culturale, e gli strumenti informatici di cui si servono, come è accaduto a Espungabera, in provincia di Manica.
Otto anni dopo la conclusione della mia vita mozambicana, fondo, insieme ad amici/he, studiosi e volontari/e, l’Associaizone Transglobal. Il tema della “traduzione”, nella sua accezione più ampia, entra con tutto il suo peso nella vita dell’associazione.
Tra i soci fondatori c’è Ejaz Ahmad, mediatore culturale di esperienza quasi trentennale di orgine pakistana. In un’intervista pubblicata in Il tempo dei migranti, Ejaz riferisce il suo vissuto di traduttore e di redattore del giornale Azad (in lingua Urdu) nei seguenti termini: “se io traduco letteralmente, non ha nessun significato. Se io voglio tradurre matrimonio, che in Urdu è shadi, non è sufficiente. Per noi shadi è il matrimonio combinato e significa solo questo. Lo stesso vale per la parola libertà. Nella nostra cultura, molte volte il termine libertà è interpretato come volgarità. […] Tradurre una guida medica di ginecologia, è molto difficile. Da noi non si può parlare della sessualità. Come ti dicevo prima, esistono linguaggi separati tra uomini e donne. Mantenendo il rispetto per la religione e per la cultura pakistana, bisogna tradurre in modo che un lettore legga quello che traduco. Io ho di fronte tre linguaggi in urdu: quello degli uomini, quello delle donne e quello della famiglia. Quando traduco, devo usare il linguaggio che tenga conto di queste differenze”. Come tradurre, quindi, lasciando in gioco queste differenze evitando che si cristallizzino? Davvero un bel rompicapo.
Serigne Touré, di cittadinanza senegalese, mette a confronto due termini linguisticamente “equivalenti”, ma molto lontani dal punto di vista connotativo, per riprendere la definizione di Hall, quindi per quello che ognuno dei due termini consente di “vedere” con la sua enunciazione: ospitalità in italiano e teranga in wolof. Cercando di descrivere il significato di teranga, Touré fa un gesto circolare con le braccia, come a includere uno spazio immaginario molto ampio dentro quel significante, uno spazio che trasborda i limiti che siamo soliti assegnare al termine ospitalità. Teranga nasce in un contesto socioculturale, relazionale, affettivo, il cui sapere e i suoi archivi parlano e vedono altro, sono costruiti su basi differenti: la conclusione del tentativo di spiegazione del suo significato ha avuto il segno della resa: “No, non si può tradurre”.
Una soluzione a questi rompicapo la offre Daniela Angelucci nel suo contributo, quando parla di “traduzione minore”. Riprendendo in una nota la definizione di M.C.A. Vidal Claramonte, Angelucci ci spiega che la “traduzione minore […] tiene conto delle deterritorializzazioni e asimmetrie tra le culture, e capisce che il traduttore è un cartografo”. Si evidenziano in questo modo “tempi sotterranei di onde più profonde - scrive Iain Chambers - e di ritmi più lunghi [che] emergono dall’oblio”, i quali ci portano a “considerare delle riconfigurazioni che propongono un’altra costellazione critica”.
Scrivi commento
Stefano Rota (mercoledì, 05 agosto 2020 12:17)
A scanso di equivoci, il testo qui contenuto non è l’introduzione al libro, anche se ne riprende alcuni brani