Stefano Rota
Nel 2019 la casa editrice brasiliana N-1 Edições ha pubblicato Esferas da Insurreição, una raccolta di testi di Suely Rolnik[1] scritti dal 2012 al 2018. Il centro della sua analisi si trova nella definizione usata nel sottotitolo “vida cafetinada”. Il termine “cafetinagem”, da cui deriva “cafetinada”, indica lo sfruttamento prostituzionale delle lavoratrici del sesso da parte dei “magnaccia”. Non è un caso che Suely usi questo termine per definire il rapporto tra individuo e regime “colonial-capitalistico”: ciò che viene messa al lavoro, ciò che viene brutalmente sfruttata non è più soltanto la forza lavoro che entra nel processo di produzione di plus-valore nel sistema capitalistico. Ciò che sta in causa per Suely nell’attuale processo estrattivo è il corpo e tutte le potenze vitali che esprime, sia in forma individuale, sia nella sua forma di “cooperazione sociale”.
Da qui l’accento che Suely Rolnik pone su due aspetti centrali: da un lato, il fallimento delle sinistre nel collocarsi coerentemente e propositivamente nel nuovo contesto definito dai processi di neoestrattivismo coloniale e capitalistico della forza vitale; dall’altro, come diretta conseguenza, la necessità di rileggere, ripensare e progettare forme di resistenza micropolitica, rizomatica, per produrre una “cartografia delle pratiche micropolitiche di destabilizzazione delle forme dominanti della soggettivazione, un diagramma della sinistra che verrà”.
Quello che Suely mi sembra proponga è una rivisitazione del concetto di critica in chiave clinica[2]. Non si tratta di un passaggio indolore: avviene sulla base di presupposti scomodi, deterittorializzanti, che ci fanno perdere la sensazione di essere “spiritualmente magnifici” mentre propugniamo scenari rivendicativi talmente “macro” da farci perdere il contatto con una realtà che è possibilmente questa, ma che proprio per questo può essere anche altro. È urgentemente il momento di porsi sul versante della micropolitica, vivere il “malessere che ci abita: aiutarci a entrare nel malessere e rimanerci lì insieme, per poter immaginare strategie collettive di fuga e di trasfigurazione”. Sono concetti tutt’altro che astratti: “pensare l’esistente sub specie possibilitatis consente – scrive Paolo Godani nel suo ultimo lavoro Tratti - di sperimentare concatenazioni differenti da quelle attuali. Vivere con il senso della possibilità significa mettersi a sognare il mondo esistente, sperimentare le concatenazioni alternative di cui la realtà stessa dispone” (pp. 169-170).
La riappropriazione dell’impulso creativo, della potenza vitale che abitano ognuno di noi è la condizione imprescindibile per cominciare a ripensare micropoliticamente la nostra esistenza quotidiana come ambito minimo al cui interno immaginare, desiderare e “sperimentare concatenazioni differenti da quelle attuali”. “E’ dalla riappropriazione desiderante, individuale e collettiva, - scrive Suely - dalla finalità etica della pulsione vitale – in sintesi, dalla sua riappropriazione ontologica – che può emergere un mutamento collettivo del suo sfruttamento, a favore di una etica di esistenza”. Se è vero che assoggettamento e soggettivazione producono reciprocamente la propria sostenibilità, “è necessario resistere nel proprio ambito politico di produzione di soggettività e del desiderio dominante nella versione contemporanea del regime – cioè a dire, resistere al regime dominante in noi stessi”.
Partendo dalla sua esperienza in Francia con Deleuze e Guattari (con quest’ultimo anche presso la clinica La Borde), dove si rifugiò al tempo della dittatura militare in Brasile che la trasse giovanissima in prigione per la sua opposizione al regime, Suely sviluppa un’elaborazione molto interessante del pensiero dei due intellettuali francesi, realizzando un esperimento schizoanalitico estremamente produttivo, adattandolo al contesto del dispiegamento del neoliberismo tra la fine del XX e inizio XXI secolo in America Latina[3]. Da questo esperimento Rolnik giunge a mettere in relazione il regime colonial-capitalistico e l’inconscio al cui interno quel regime si instaura.
Se l’azione del regime colonial-capitalistico rivolge la sua attenzione al corpo e alle innumerevoli forme di espressione che emanano dalla sua forza vitale sfruttandole (secondo la suddetta logica prostituzionale) in una messa al lavoro costante per fare della soggettività null’altro che un’esperienza come soggetto identitario, la pratica micropolitica, dice Paul Preciado nella sua introduzione, deve necessariamente ripartire dalla riappropriazione “del ‘sapere-del-corpo’, della sessualità, degli affetti, del linguaggio, dell’immaginazione e del desiderio. La vera fabbrica è l’inconscio e, di conseguenza, la battaglia più intensa e cruciale è micropolitica”.
Un approccio che segna il passaggio dalla critica alla clinica, quindi, con una specifica attenzione alle vicende che connotano in Brasile e più in generale lo scenario globale in questo drammatico presente. Ripartire quindi da una cartografia dei linguaggi, della cultura popolare (nonostante l’ambiguità che accompagna questa definizione), delle pratiche di fuga quotidiana, delle “tecniche” di conservazione e valorizzazione della propria vita, che ci consentano di cogliere le soggettività nella relazione pluridirezionale che colloca il soggetto nella dimensione spazio-temporale in cui agisce. Partire umilmente e senza preconcetti da questa ricostruzione epistemologica e cartografica dei soggetti, per sovvertire il rapporto grammaticale asfittico significato/significante applicato a termini come solidarietà, mutualismo, benessere, desiderio, lotta, vita, ecologia, relazione, godimento, piacere, tempo, libertà, migrante, straniero e riconsegnarli alla polifonia degli strumenti espressivi che gli è propria.
Tra gli autori con cui Suely dialoga a lungo nella trattazione dei suoi argomenti, oltre a Deleuze e Guattari, vi sono Toni Negri e Michael Hardt, in particolare per quanto riguarda la trilogia composta da Impero, Moltitudine e Comune. Restano quasi sempre impliciti, ma tutt’altro che secondari, i riferimenti a tutti i lavori svolti sul tema della decolonizzazione, da Fanon a Sayad e molti altri. Il riferimento all’annientamento della pulsione vitale e della potenza creativa attuata dal regime colonial-capitalistico rimanda, inoltre, a quanto scrive Mbembe in Necropolitica, dove parla delle figure della modernità che hanno come scopo “il sistematico uso strumentale dell’esistenza umana e la distruzione materiale delle popolazioni e dei corpi” (p. 51).
In questo lungo confronto con gli autori che cita, Rolnik riserva una particolare attenzione all’uso che Negri e Hardt fanno del concetto di Comune. Usando la loro definizione come punto di partenza, l’autrice giunge a definire il “comune come il campo immanente della pulsione vitale di un corpo sociale quando prende quella stessa pulsione in mano, in modo da dirigerla alla creazione di forme di esistenza per ciò che essa richiede. […] Cercare quelle forme dipende da una volontà collettiva di agire che mira alla costruzione del comune, ovvero ciò che non è dato a priori”.
Il libro è composto da una bellissima introduzione di Preciado, un testo introduttivo di Rolnik, tre saggi centrali, e un “gran finale” con l’elenco di “dieci suggerimenti per gli inconsci che protestano nella paura di decolonizzarsi dal proprio regime antropo-fallo-ego-logocentrico”.
[1] Nata in Brasile, Suely Rolnik è psicoanalista e critico culturale. È docente presso la Pontificia Università Cattolica di São Paulo dove coordina il Nucleo di Studi Transdisciplinari della soggettività. Si rifugiò esule a Parigi tra il 1970 e il 1979 dove si laureò in filosofia, scienze sociali e psicologia, dopo essere stata incarcerata dal regime militare brasiliano. Ha tradotto Millepiani di Deleuze e Guattari in portoghese. È autrice insieme a Félix Guattari di Micropolítica, Cartografias do desejo, a cura di Tinta Limón.
[2] Di questo passaggio si è già trattato su questo blog: “Dalla critica alla clinica per ripensare le parole della crisi” https://associazionetransglobal.jimdofree.com/2019/09/25/dalla-critica-alla-clinica-per-ripensare-le-parole-della-crisi/
[3] Sull’esperienza parigina di Suely, in questo blog: “Deleuze schizoanalista” https://associazionetransglobal.jimdofree.com/2019/05/17/deleuze-schizoanalista/
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